lunedì 10 aprile 2017

Elogio del “poco difficile”


Nel tempo e nelle continue frequentazioni, ho vissuto personalmente come l’approccio ad una scarsa difficoltà tecnica venga ad un certo punto “snobbato” nella ricerca del perfezionamento e dell’autocompiacimento. Questa continua ricerca di miglioramento però, volge a discapito di tutti gli altri aspetti che la montagna o un’esperienza in generale possa offrire. Nei discorsi da Rifugio, alle volte ho la percezione che vi sia quasi un’assuefazione alla difficoltà e all’adrenalina, tale per cui, bisogna per forza di cose alzare “sempre” l’asticella, altrimenti si ha la percezione di sprecare il tempo. Credo, oggi più che mai, che non sia affatto così e ne ho avuto la riprova, una volta ancora, percorrendo la nuova via ferrata sopra Baveno (VB) dal nome “Dei Picasass”. Ovviamente ciò non deve essere considerato come una volontà di regressione, ma come individuazione e valorizzazione di uno spettro più ampio. Bene, la via è appunto classificata “poco difficile”, ma già questo non deve far germogliare in alcune menti la malsana idea che poco difficile sia sinonimo di facile o peggio di banale; in montagna di “banale” non c’è nulla.  Ma tornando a noi, ritornare una volta ogni tanto ad una difficoltà inferiore, permette di potersi concedere molte più occasioni di “buone distrazioni” su ciò che ci circonda. Per una volta lasciare fuori dallo zaino l’orgoglio della performance ad ogni costo e abbandonarsi ad una lenta e corroborante contemplazione. La giornata di ieri è stata, in questo senso, un toccasana: quota bassa, temperatura gradevole, difficoltà limitata, panorama mozzafiato sul lago Maggiore, ma soprattutto la percettibile vibrazione che nei boschi trasmette la primavera. Ed è stata subito armonia di affinità elettiva con l’ambiente che mi circondava. Lo stupore, perennemente rinnovato, che annega nel verde del germogliato fogliame del Carpino, delle erbe che tentano il propagamento fuori dalle zona d’ombra e le sparute fioriture di colore. Il continuo fruscio di lucertole, disturbate dal mio passaggio, che scappano tra il vecchio e rinsecchito fogliame. Poi ancora, il profumo della pietra, un granito venato di rosa, che comincia ad assorbire calore e a cederlo nel tepore del mattino. La mente, non immedesimata nella proiezione del successivo gesto atletico, si smarrisce nelle sfumature del paesaggio. Non tutto è aulico e desiderabile, come il vedere l’abbandono della gestione del bosco, le molteplici carcasse di piante schiantate, che nessuno ha più la necessità di andare a recuperare. Arbusti, che non potremmo propriamente considerare autoctoni dell’Alto Vergante, prolificano all’insegna di quel riscaldamento climatico che molti faticano a comprendere, soprattutto nei rischi dell’apporto della cosidetta “globalizzazione” anche dell’ecosistema. Poi la vista spazia alle mie spalle sul lago, sulle isole Borromee, sui picchi inconfondibili della Val Grande, come il Pedum o lo Zeda, e tutto, anche il rumore dei pensieri nella testa, si disperde nella vastità dell’orizzonte; e rallenta il battito, il respiro. Su fino alla cima, contraddistinta dalla Croce, che assume un senso diverso in questa Domenica delle Palme, e allora pensi anche a quanta fortuna hai nel poterti permettere di frequentare un luogo in piena tranquillità, senza la paura di evitare un bombardamento o delle scariche di mitra, ed io lo so bene. La gioia di poter camminare ovunque, anche di uscire dal sentiero, senza il terrore che ci sia la presenza infame di mine. Che fortuna davvero, se l’animo non inorridisce e sconfina in convulsiva follia davanti a frastuono di un boato; che da noi è solo rumore di tuoni o di effetti pirotecnici. Dopo lo smarrimento iniziale, davanti alla bellezza che recepiscono i tuoi occhi, ti rendi conto che i monti e il paesaggio non hanno meriti e non hanno colpe, se non quella di esistere e di stare lì: tutto il resto dell’intero pasticcio ha l’umanità e la sua discutibile intelligenza, come unico responsabile.         



Stefano Camòrs Guarda