Nel tempo e nelle continue
frequentazioni, ho vissuto personalmente come l’approccio ad una scarsa
difficoltà tecnica venga ad un certo punto “snobbato” nella ricerca del
perfezionamento e dell’autocompiacimento. Questa continua ricerca di
miglioramento però, volge a discapito di tutti gli altri aspetti che la
montagna o un’esperienza in generale possa offrire. Nei discorsi da Rifugio,
alle volte ho la percezione che vi sia quasi un’assuefazione alla difficoltà e
all’adrenalina, tale per cui, bisogna per forza di cose alzare “sempre” l’asticella, altrimenti si ha la
percezione di sprecare il tempo. Credo, oggi più che mai, che non sia affatto
così e ne ho avuto la riprova, una volta ancora, percorrendo la nuova via
ferrata sopra Baveno (VB) dal nome “Dei
Picasass”. Ovviamente ciò non deve essere considerato come una volontà di
regressione, ma come individuazione e valorizzazione di uno spettro più ampio.
Bene, la via è appunto classificata “poco
difficile”, ma già questo non deve far germogliare in alcune menti la
malsana idea che poco difficile sia sinonimo di facile o peggio di banale; in
montagna di “banale” non c’è nulla. Ma
tornando a noi, ritornare una volta ogni tanto ad una difficoltà inferiore,
permette di potersi concedere molte più occasioni di “buone distrazioni” su ciò
che ci circonda. Per una volta lasciare fuori dallo zaino l’orgoglio della
performance ad ogni costo e abbandonarsi ad una lenta e corroborante
contemplazione. La giornata di ieri è stata, in questo senso, un toccasana:
quota bassa, temperatura gradevole, difficoltà limitata, panorama mozzafiato
sul lago Maggiore, ma soprattutto la percettibile vibrazione che nei boschi
trasmette la primavera. Ed è stata subito armonia di affinità elettiva con
l’ambiente che mi circondava. Lo stupore, perennemente rinnovato, che annega
nel verde del germogliato fogliame del Carpino, delle erbe che tentano il
propagamento fuori dalle zona d’ombra e le sparute fioriture di colore. Il
continuo fruscio di lucertole, disturbate dal mio passaggio, che scappano tra
il vecchio e rinsecchito fogliame. Poi ancora, il profumo della pietra, un
granito venato di rosa, che comincia ad assorbire calore e a cederlo nel tepore
del mattino. La mente, non immedesimata nella proiezione del successivo gesto
atletico, si smarrisce nelle sfumature del paesaggio. Non tutto è aulico e
desiderabile, come il vedere l’abbandono della gestione del bosco, le
molteplici carcasse di piante schiantate, che nessuno ha più la necessità di
andare a recuperare. Arbusti, che non potremmo propriamente considerare autoctoni
dell’Alto Vergante, prolificano all’insegna di quel riscaldamento climatico che
molti faticano a comprendere, soprattutto nei rischi dell’apporto della
cosidetta “globalizzazione” anche dell’ecosistema. Poi la vista spazia alle mie
spalle sul lago, sulle isole Borromee, sui picchi inconfondibili della Val
Grande, come il Pedum o lo Zeda, e tutto, anche il rumore dei pensieri nella
testa, si disperde nella vastità dell’orizzonte; e rallenta il battito, il
respiro. Su fino alla cima, contraddistinta dalla Croce, che assume un senso
diverso in questa Domenica delle Palme, e allora pensi anche a quanta fortuna
hai nel poterti permettere di frequentare un luogo in piena tranquillità, senza
la paura di evitare un bombardamento o delle scariche di mitra, ed io lo so
bene. La gioia di poter camminare ovunque, anche di uscire dal sentiero, senza
il terrore che ci sia la presenza infame di mine. Che fortuna davvero, se l’animo
non inorridisce e sconfina in convulsiva follia davanti a frastuono di un
boato; che da noi è solo rumore di tuoni o di effetti pirotecnici. Dopo lo
smarrimento iniziale, davanti alla bellezza che recepiscono i tuoi occhi, ti
rendi conto che i monti e il paesaggio non hanno meriti e non hanno colpe, se
non quella di esistere e di stare lì: tutto il resto dell’intero pasticcio ha
l’umanità e la sua discutibile intelligenza, come unico responsabile.
Stefano Camòrs Guarda