Per raccontare una storia importante, è la prima cosa che insegnano agli scrittori, bisogna saper scegliere l’inizio giusto. Così è per me ora; per raccontare la storia di una salita, di una fisica e mentale elevazione. Avrei potuto utilizzare come introduzione il teorema sociologico che sostiene che l’uomo moderno ha una percezione cognitiva basata su schemi predefiniti, atti a creare stabilità razionale di base oggettiva … bla, bla, bla, …, ma sarebbe stata troppo seria e noiosa. Allora forse, avrei potuto raccontare che c’erano un Lombardo, un Trentino ed un Veneto… ma così sarebbe sembrata una barzelletta. Ecco allora, decido di partire senza preamboli inutili e parlare di questa salita sul Monte Rosa, effettuata da tre ragazzi che poco hanno in comune, se non, una più o meno recente passione verso le montagne. L’idea di effettuare questa ascensione è nata un anno fa, quando invitai Giuseppe a faticare un po’ con me sulla ferrata dell’Amicizia, sopra Riva del Garda. Ricordo che quando vidi i suoi occhi perdersi nel vuoto sottostante, così come accadde alle frivole parole, volutamente abbandonate nelle acque scure del lago, gli feci una proposta. Perché una volta non vieni trovarmi, che ti accompagno sul Rosa? Nei mesi successivi ognuno di noi tornò ai propri mestieri e alle proprie consuetudini, fino a quando, tre mesi fa circa, mi giunse una mail, era Giuseppe. Mi scrisse: Ste, è ancora valido l’invito per la scalata? (ovviamente dovetti tradurre il dialetto vicentino con l’ausilio di Google). Eccomi qui dunque, in macchina, sulla provinciale che conduce ad Alagna Valsesia, a parlare di toponomastica, a spiegare che il nome del Monte Rosa non deriva dal colore che assume all’alba o al tramonto. Tutte le montagne innevate si colorano d’emozione, alla vista del sole o al suo arrivederci. No, Rosa deriva da un termine del vocabolario latino rosia, modifcato dal patois valdostano in rouja, che significa ghiacciaio. Parola conosciuta anche nei dialetti Walser dei popoli di origine tedesca, che si stabilirono secoli addietro su quegli irti pendii. Quindi il Monte Rosa altro non è, che la montagna ghiacciata, o meglio, la montagna che rimane sempre ghiacciata.
Arriviamo finalmente a destino e sotto una fitta pioggerella ci portiamo alla stazione della funivia. Il primo tronco passa abbastanza inosservato, ma nel secondo e nel terzo, quando il verde dei pini ci abbandona per lasciarci in compagnia di neve e salti di roccia, vedo lo sguardo dei miei due compagni sempre più rapito. La tratta motorizzata ci conduce a punta Indren, a 3260mt. Nevischia, la visibilità è scarsa e fa freddo. Perfetto, pensiamo, il meteo dava schiarite nel pomeriggio e invece nevica. Mi guardo attorno, la traccia è ben visibile, anche se in questo periodo dell’anno non mi era mai capitato di trovare ancora così tanta neve sul ghiacciaio d’Indren. Dopo brevi istanti dedicati alla vestizione, partiamo alla volta del rifugio Mantova, calcando le orme presenti tra neve viscida e rocce umide. Dopo una mezz’ora circa il rifugio è in vista. Il rifugio Mantova a 3498mt è il primo avamposto per i molti sci alpinisti e scalatori, accoglie i viandanti ergendosi su un pianoro alla fine del ghiacciaio Garstelet. Ci fermiamo qualche istante, per godere di alcuni avari scorci di panorama. Mi soffermo più volte a osservare il volto estasiato dei miei amici, nei brevi istanti in cui le nubi, grigie e danzanti, aprono sipari impagabili a dipinti d’autore. Il rifugio Gnifetti, nostra meta intermedia, è a qualche centinaio di metri più sopra, in vista, su una cresta di roccia. Ma è ancora presto, così prima di rintanarci, decido di condurre i ragazzi a una piccola Croce, posta poco sotto il Mantova e da dove si può ammirare, in tutto il suo splendore, l’imponenza e l’asprezza del ghiacciaio del Lys. Giunti alla soglia di quel baratro sassoso, mi allontano qualche metro, per un istante d’intimo ringraziamento personale. Salire questa montagna, è per me, un’esperienza alpinistica ed al contempo spirituale. Ogni volta che ne ho percorso i suoi versanti, è stato come cogliere germogli di lucidità circa la reale natura umana. Assaporare quella familiare sensazione di smarrimento, nel ritrovarsi dinnanzi a spazi e dimensioni così grandiose, da farci ricordare istantaneamente la nostra vera dimensione fisica. Mi accorgo che qualche effetto questo luogo lo sta avendo anche su chi mi accompagna. Accolgo a cuore grato, nuovamente, i loro volti spaesati e ammaliati davanti a quella vista, consapevole come per loro sia la prima volta dal vivo. Momenti di silenzio scendono lievi come il nevischio, dove l’intensità di un solo sguardo, racchiude il potere di mille lingue. Dove le parole di tutte le lingue esistenti, non basterebbero per descrivere anche solo un istante di quei momenti. A malincuore interrompo quel clima mistico e arcano, è giunta l’ora di proseguire per il Gnifetti. Saliamo sul ghiacciaio Garstelet coperto da un velo di neve fresca e raggiungiamo in breve i 3648mt. dell’abbarbicato rifugio.
La sera trascorre gioviale in compagnia di cortesi sconosciuti e fugaci spiate oltre i vetri appannati, con la speranza nell’animo e l’adrenalina già in corpo. La notte, è risaputo, a queste quote non passa mai. Non perché il tempo rallenti davvero, ma perché è difficile addormentarsi e riposare. Quando, a riprova di ciò, la sveglia mi avverte che è giunta l’ora di muoversi, alle 3.45, l’umana ragione un poco si ribella. Per fortuna a darmi la scossa ci pensa il meteo. Butto un occhio semichiuso fuori dal vetro della cameretta e…vedo le luci di Alagna, il tempo è rasserenato, si vede la luna, sarà una giornata splendida, memorabile. Si svegliano anche gli altri, breve colazione, poi ci prepariamo. Alla fine, alle 4.45, partiamo. Appena fuori il rifugio siamo già comodamente sulla via d’ascesa, ci leghiamo in cordata e via, parte l’avventura verso la punta Gnifetti o Signalkuppe. Le luci dell’alba già s’intravedono oltre la sagoma della piramide Vincent, alla nostra destra, mentre la seraccata del ghiacciaio del Lys ci accompagna per tutta la salita del primo strappo. La fatica ci viene incontro e subito tenta di convincere le nostre povere menti all’abbandono, tessendo lusinghiere lodi sugli infiniti agi presenti giù in valle. Non demordiamo e trovato un ritmo accettabile al cammino guadagniamo quota, seguiti da un lungo serpentone di luci frontali. Quando la pendenza cala un poco, ci fermiamo per una breve sosta. Il vento ora è diventato forte e si fa sentire con irruenza, la sua voce dolente, è di un’insistenza e di una gravità nel suono, da assumere quasi i toni della drammaticità. La luce del sole illumina le vette più alte intorno a noi, tanto da rimanerne abbagliati, più dalla celestiale bellezza che dall’intensità dei raggi. I miei amici sono profondamente sorpresi e stupiti, sperduti in quel nuovo paesaggio, mentre li ragguaglio sui nomi dei picchi che ci circondano. Il Liskamm alla nostra sinistra. La Piramide Vincent ed il Balmenhorn, con la famosa statua del Cristo delle vette, a destra. Ancora, il fascino delle ombre dei seracchi e le perfide striature della crepacciata del Lys. Poi la vista sconfina all’orizzonte, dove subito si coglie l’imponenza dell’altro gigante, il Bianco. Alle nostre spalle il Gran Paradiso, la Grivola , l’Emilius e molte altre cime Valdostane, silenziose, riscaldano al tiepido sole le loro pietre millenarie. Mi sento un po’ in colpa nell’interrompere la contemplazione, ma è ora di ripartire. La traccia rincara la pendenza, ed anche la quota comincia a giocare la sua partita. Ormai abbiamo raggiunto i 4000 metri e l’aria diventa della stessa densità degli euro nelle tasche degli italiani. Bisogna salire, non farsi abbattere dalla stanchezza, non cedere alle umane paure, alla ricerca del comodo, del confortevole. Amo il Rosa e l’esperienza di montagna in generale, perché ha la capacità di farti provare le emozioni di una vita intera concentrate in poche ore. Perché, senza false promesse, dopo un’immensa fatica, può regalarti la felicità della cima o la rabbiosa disperazione della rinuncia forzata. Senza cinismo, perché Lei è sempre lì, senza pregiudizio, regalando a chi sa individuare il proprio limite, molteplici opportunità di riprova.
Il respiro diventa molto affannoso mentre raggiungiamo il colle del Lys. Siamo a quasi 4300mt. quando si para davanti ai nostri occhi, la montagna per eccellenza, quella che è forse la rappresentazione della montagna nell’immaginario collettivo: il Cervino. Davanti a noi la meravigliosa e più elevata Punta Dufour ed alla nostra sinistra oltre la Zumstein , ci scruta la Capanna Regina Margherita. Prima di giungere alla meta, ci attende però ancora un lungo traverso di falsopiano e l’ultimo salto di quota. Una nuova insidia, però, attende il nostro passo, la consistenza della neve. Farinosa e marcia, non tiene il nostro peso. Ideale per gli sci alpinisti, ma non per chi ha i ramponi ai piedi. Quel traverso mi fiacca, ad ogni passo i miei scarponi sprofondano di una ventina di centimetri e questo aggiunge sforzo allo sforzo. “Tèn dur, tèn dur”mi ripeto, come un mantra nella mia mente, mentre finito il pianoro risaliamo l’ultimo pendio. Quasi giunti alla sommità, appena sotto l’ultimissimo strappo ghiacciato, sento la corda tirare. Mi volto, Giuseppe è a terra. Ivan, suo cugino e terzo della cordata e lì vicino. La quota, la stanchezza, il freddo e le fortissime folate di vento che gettano nuvole di neve addosso, hanno messo al tappeto Giuseppe. Mi avvicino anch’io. Cerchiamo di consolarlo un po’, di incoraggiarlo, ma appare davvero stremato. La posizione è molta esposta alle raffiche gelate e comincio a temere che si raffreddi troppo. Si alza, ma si accascia nuovamente al suolo, ed ancora, per una terza volta. Mangia un po’ di miele e beve del tè caldo. Forse era lì la chiave, disidratazione. Lentamente si rialza ancora e mi appare rincuorato. I primi passi di una ripartenza sono sempre i più difficili, soprattutto a livello mentale, così decido di utilizzare il metodo del conteggio. Camminiamo per brevi tratti di venti passi, contandoli, poi ci fermiamo per rifiatare. Primi venti, secondi venti, terzi vent… imbroglio, ne faccio di più. Giuseppe mi segue, è ripartito. Giungiamo così alla base dell’ultimo salto, una sessantina di metri molto ripidi, scavati nella neve dura. Lo sfinimento sembra essersi seduto sopra lo zaino sulle mie spalle, ma chiudo gli occhi e in piena trance agonistica risalgo quel crinale gelido. Arrivo davanti alla sagoma scura della Capanna, dopo pochi secondi mi raggiungono Giuseppe ed Ivan. La stanchezza è tanta, ma una luce nuova e incontenibile sgorga dai loro occhi, come un ruscelletto al disgelo. Siamo in cima, siamo a 4552mt sulla Punta Gnifetti o Signalkuppe. Lo spettacolo che ci circonda è un corollario di aggettivi superlativi che mai potrebbero rendere giustizia a ciò che si prova, in realtà, vedendolo di persona. Prima di entrare al Margherita per rifocillarci, sostiamo un momento ancora in balia del vento, dispiace abbandonare anzitempo quel sapore di gioia. Una volta entrati al rifugio, l’ascesa sarà finita, sarà già l’inizio della discesa, del ritorno. Non ancora, vogliamo prolungare l’Istante. La mente in quel momento è libera, nel tempo di un respiro. In quella frazione impercettibile, tutto viene annullato, cancellato. Non esiste futuro, non vi è passato. Termino volontariamente questo racconto qui, nell’attimo più intenso, in quello più difficilmente spiegabile e soprattutto, parlando di ciò che è impossibile portare via. Il ricordo di quella scheggia di vita rimarrà lassù, insieme a quelle di tutte le persone che, ignare, hanno liberato la propria anima al cielo. Un frammento infinitamente piccolo ma capace di influenzare tutta un’esistenza. Un personale istante, ora, nascosto nel ghiaccio.
Stefano Camòrs Guarda
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