La sveglia avrebbe dovuto suonare
alle cinque, alle quattro e cinquantanove prendo l’orologio e la tolgo. E’
sempre così, ogni volta che devo andare in montagna l’entusiasmo è talmente
tanto da farmi anticipare la sveglia. Forse è proprio questa una delle ragioni
che me la fanno amare tanto, è una delle pochissime cose, se non l’unica, che mi
fa riassaporare in ogni occasione l’euforia di un fanciullo. Mi alzo dal letto
cercando di essere il più delicato possibile e mi reco furtivamente in cucina
per un rapido caffè. Lancio un’occhiata fuori dal vetro, la giornata è
meravigliosa. Al piano di sotto sento che anche mio cognato, Fabiano, è già
pronto ed infatti di lì a qualche istante appare in cortile mandandomi un cenno
d’intesa, è ora di andare. Poco dopo l’auto scorre tranquilla le curve che dal
Bleggio Superiore scendono al paese di Ponte Arche, per poi risalire d’impeto
verso Stenico. Passiamo accanto al Castello ed alla magnifica cascata
dell’acqua bianca, che gorgogliando saluta il nuovo giorno, ornando di
spumeggiante organza le pareti di roccia. La strada prosegue serpeggiante lungo
i costoni rocciosi, sempre asfaltata e comoda fino al bivio d’entrata alla Val
d’Algone. Da lì, la strada si stringe un poco e ci rendiamo conto che è una
fortuna che sia mattina presto e non ci siano auto che scendano. Arriviamo
finalmente alla fatidica sbarra, dove si paga l’ingresso per il restante pezzo
di strada, che ironia della sorte, a pagamento, è il tratto tutto sterrato. Sono circa otto chilometri di curve
e dossi sassosi che si eviterebbero volentieri, ma quella mezz’ora di
sballottamenti permette di giungere alla malga Movlina, facendoci prendere
quota e risparmiandoci almeno due ore di tempo. Raggiungiamo finalmente il
posteggio nei pressi della malga. Scendo dall’auto e subito l’occhio viene
catturato dalla corona di cime che svetta davanti a noi, ornate da un’aurea di
luce che lentamente solleva il proprio calore alle loro spalle. Mi cambio
scarpe, infilo lo zaino, prendo un profondo respiro; sono a casa.
Bando ai convenevoli, è ora di
muovere il passo, e via che si va. Io, carico come una molla e con il sorriso
ebete che mi caratterizza quando cammino in montagna e mio cognato, con i suoi
bastoncini da trekker professionista. Dalla Movlina scendiamo fino al bivio
dove si incrociano due sentieri il n° 341, che si inerpica su per la val di
Sacc e l’altro, il più frequentato, che sale per la val di Nardis, ma che noi
useremo per la discesa. Il sentiero intrapreso serpeggia immediatamente tra
magnifici larici, rasenta rododendri fioriti e un pungente profumo di resina e
terra di bosco, inebria il mio corpo. Quando pensi che nulla possa essere
migliore di così, la montagna continua a stupirti, infatti, appena volgo lo
sguardo alla mia destra, ecco comparire in tutto il suo splendore il Carè Alto.
Intrigante e gelato gendarme della val Rendena, dal profilo inconfondibile e
dal passato insanguinato. Che meraviglia, prendo un altro profondo respiro e
riparto, mentre i profumi del sottobosco mi penetrano le narici e incuranti
della natura, evitano di rintanarsi nei polmoni per andare diritti a posarsi
sulle pareti vibranti del cuore. Il percorso spiana leggermente quando
arriviamo alla Baita dei cacciatori. Da lì, un altro bivio ci attende e noi tenendo
la nostra sinistra ci incamminiamo verso un primo divertente saltino roccioso,
che ci conduce al primo tratto di ghiaione. Questo è il pezzo, tra virgolette,
più bruttino da camminare. La via percorre una salita abbastanza ripida, ma che
è realmente formata da ghiaia, per cui facciamo veramente fatica a stare in
piedi. Intorno a noi troneggia un anfiteatro di pareti da togliere il fiato,
dalla Pala dei Mughi, alla nostra sinistra, fino alla Cima dei Camosci davanti
a noi. A proposito di ungolati, quasi sapessero del mio soprannome, Camòrs
appunto, un intero branco di una trentina di camosci, di tutte le taglie, scende
correndo verso il ghiaione. Balzellano mostrandoci infinita leggerezza e leggiadria,
quasi a sottolineare chi è il padrone di casa e chi è l’ospite. Li guardo
ammaliato, mentre danzano tra gradini di croda e cengette innevate e quasi mi
viene da sussurrare: Tranquilli, sappiamo
benissimo di essere noi gli ospiti quassù. Giunti alla sommità della
pietraia ci aspetta un balzello di roccia di una quindicina di metri,
attrezzato addirittura con dei cavi da ferrata, indubbiamente utilissimi in
caso di ghiaccio, ma che oggi, evito con accuratezza e scimmiottando grossolanamente
la bravura degli acrobati quadrupedi, veduti poco prima, mi diverto ad emularne
i movimenti. Qualche esemplare, immobile poco sopra, mi guarda incuriosito e …
chissà a cosa starà pensando. Fortuna mia che non abbiano la parola. Superato
il tratto roccioso, siamo costretti a procedere per un ulteriore tratto
ghiaioso, anche se per onor di cronaca, meno franoso del precedente. Saliamo
spediti verso il Passo Dodici Apostoli, con l’omonima cima alla sua sinistra e
una strana formazione rocciosa alla medesima altezza del passo. La roccia è
scavata da eventi naturali in una maniera da sembrare la dentatura di un
francobollo, oppure vista da più lontano quelle sagome possono sembrare dei
fraticelli in fila indiana, che siano questi i Dodici Apostoli? Mi volto, mio
cognato sta salendo molto bene, non ha problemi ne di gamba ne di fiato, molto
bene.
Ultimo tratto roccioso di pochi metri ed eccoci al Passo. Appena sbucati
ci troviamo di fronte ad un altro immenso anfiteatro naturale formato da cime e
pareti verticali, ancora abbastanza innevate benché sia Agosto. Non ricordo
tutti i nomi di quelle cime, ma sicuramente quella davanti a me è la cima
d’Agola, con al suo fianco la cima d’Agola bassa, che sale sinuosa e
ondeggiante come se invece di roccia si trattasse d’acqua; incurante o
indifferente del fatto che il mare da qui si è ritirato milioni di anni fa.
Scendiamo verso il rifugio facendo dello slalom tra saltelli di dolomia
e ometti segnavia. In prossimità del rifugio mi stacco un attimo da mio cognato,
vado a fare visita al memoriale scavato nella roccia della montagna. Una grotta,
con l’estremità sulla parete strapiombante, scolpita a forma di croce. Una
volta dentro, mi fermo un istante dando le spalle ai monti e con il viso
rivolto alle decine di lapidi commemorative. Rivolgo un istintivo e sommesso
saluto, a persone che avevano la mia stessa passione, o forse maggiore, tanto
che la montagna le ha volute con sé. Una preghiera, sussurrata e vestita
d’umana commozione, nel guardare quelle foto negli occhi. Poi ancora, uno
sguardo al panorama, che dipinge l’orizzonte fuori da quella stanza di
dolomitica memoria e un pensiero, che striscia come una serpe nei meandri della
mia mente. Quel posto, è un sacrario dedicato ai caduti di tutte le guerre, ma
subito il ricordo corre alla prima guerra e penso a tutti quelli di lingua e
nazionalità diversa che sono passati da qui e sono rimasti estasiati fino
all’emozione. Mi convinco sempre di più, quindi, che come la maggior parte
delle cose al mondo ha una matrice dualistica, anche la differenza tra gli
essere umani è semplicemente assimilabile in soli due gruppi. Rabbrividendo al
pensiero di generazioni perse per difendere un sasso, seppur meraviglioso,
approdo alla conclusione che il mondo sia diviso tra uomini e uomini stupidi;
ad ognuno poi, sta la facoltà di interrogarsi sul suo clan d’appartenenza. Devo
andare, Fabiano mi attende al rifugio per rifocillarci un poco, prima di
scendere e tornare alle nostre amate quotidianità.
Due risate e una fetta di torta,
un’occhiata di ammirazione ad una foto di Bruno Detassis, appesa alla parete, e
un po’ d’invidia per quella magnifica stufa di maiolica bianca, posata in un
angolo, che sicuramente riscalda con cura serate un po’ alcoliche e
conversazioni amichevoli.
Usciamo dal rifugio, siamo praticamente soli all’ingresso di un
palcoscenico, dove le meraviglie sono là, sugli spalti e a noi inutili comparse
non spetta che ammirare, contemplare silenziosamente l’immota ed effimera
bellezza. Osservo rapito quelle verticalità, poi chiudo gli occhi e prendo di
nuovo un bel respiro profondo. L’aria è fresca e profuma di polvere di roccia.
Mi balenano alla mente le immagini viste al rifugio, Detassis, Agostini e altri
pionieri dell’alpinismo. Gente che con scarpe di feltro e una corda di canapa
legata alla vita, con qualche chiodo costruito in cantina, salivano e aprivano
vie sulle candide pietre di queste roccaforti. Se penso a quali attrezzi
vengono utilizzati oggi, oltre allo sguardo al cielo non può che salire una stima
infinita nei loro confronti.
E’ tempo di tornare, a malincuore, ma come mi avevano ricordato i
camosci, sono solo un ospite. Per cui è ora di togliere il disturbo, e poi,
quei profili e quel luogo, si sono già stampati nella mente più indelebili di
qualsiasi foto abbiamo fatto. La discesa la effettuiamo seguendo il sentiero n°
307, che scende alla val di Nardis. La prima parte è molto divertente, su
risalti di roccia, poi su un breve ghiaione fino a giungere ad un tratto
attrezzato con cavo d’acciaio e poco più sotto, addirittura scalinato con travi
di legno. Nello scendere incontriamo parecchie persone che stanno salendo, ci
si saluta anche se non ci si conosce. Questa è un’altra consapevolezza che
regala la montagna, qui esiste un'unica moneta, la fatica. Ecco quindi che con
chiunque si abbia un incontro, si ha già una cosa condivisa, anche se si tratta
di uno sconosciuto e questo ci porta tutti allo stesso livello. Chi sceglie la
salita, per un certo tempo non ha più ceto sociale o casta. Ognuno è solo con
il suo cammino, con il suo animo, ognuno deve pagare un fio con quell’inesauribile
conio.
Alla fine della discesa più ripida il
sentiero si tuffa in un mare di verde ispirazione, iniettando l’estasiato
viandante in un bosco di mugo. Un sottile rivolo, di pietrisco bianco, si
insinua tra fitte e profumate fronde aghiformi, ornate da piccole pigne di
colore brunito, mentre a terra, ad incorniciare il passo, s’adagia del
rododendro fiorito. Dall’alto la sagoma del rifugio sembra vigilare sulla
valle. Usciti da quel resinoso sogno, la via ritorna in salita, tra larici e abeti,
costeggiando dall’alto il lago di val d’Agola. Giungiamo al bivio con il
sentiero n° 354, che in una decina di minuti ci riporta alla malga Movlina. Da
lì in poi, la strada ritorna uguale a quella dell’andata, quello che muta ogni
volta, è lo stato di intenso benessere che impregna il mio animo; assorbito dal
terreno, donato forse, da quelle scaglie di memoria.
Camòrs
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