lunedì 3 marzo 2014
Che albero sei?
Che albero sono? Ogni volta che una giornata serena irrompe nel mio animo, ecco sopraggiungere all’improvviso, come un arcobaleno, questa domanda. Mi guardo attorno, vedo Pini, alti e slanciati, belli nel loro abito argenteo ed elegante, un po’altezzosi e severi in verità. No, non sono uno di loro. Vedo alberelli pavoneggianti, ornati da mille colori, che scimmiottano finte imponenze e inutili velleità. In realtà non offrono nulla, al di fuori di una fulminea ammirazione; non offrono frutti, nessun riparo ad uccelli, ombra poca, già, poca anche di quella. No, non credo di essere di quella specie. Che albero sono dunque? Spesso credo di essere un Salice piangente, a causa del mio continuo trattenere angoscia, custodirla in grembo, curarla e cullarla, come un sogno, un ricordo. Nella sofferenza d’animo lo abbraccio saldamente, quasi fosse un eco lontano delle mie vere origini. Ma no, non sono neanche un Salice. La mia confusione nasce dal fatto di sapere di essere stato sradicato, spostato dal mio luogo. A volte invidio le piante in vaso, loro ovunque le si sposti portano con se quella manciata di ricordi e quel briciolo di storia. Io no, io ho saggiato l’essenza selvatica, ho affondato le radici nella soffice terra che custodisce, a fil di terreno, rocce aguzze avvolte dal muschio. Letti di foglie autunnali dipingevano il tramonto al suolo, mentre il vento passando suonava musiche antiche, sonorità primordiali. Tutti quelli come me, seppur distanti, lasciavano libere le radici ad avvolgersi ed aiutarsi, a debita distanza. Divisi dal destino che li seminò in quei luoghi, ma vicini per caparbietà. Ora ricordo. Ora che il sole riscalda qualche ramo. Ora che vedo le mie piccole gemme unite alla corteccia, pronte ad esplodere. Solo ora ricordo chi sono. Sono un Castagno. Semplice e non molto avvezzo alla bellezza, fragile alle volte, ma comunque tenace. Capace di lasciarsi morire in alcune parti per fortificarne altre e garantire il compimento della mia vita, donare i miei frutti. Alcuni alberi sono utili solo da morti, solo i loro legni, infatti, potranno venire utilizzati, come materia da costruzione o da ardere. Il mio fuoco invece non è un gran che, tutto scoppiettii e scintille. Brucio in fretta, quella stessa fretta che mi ha sempre accompagnato nella vita, ma che non ho mai sentito propria. Ecco, finalmente rammento, l’essere straniero in questo verde giardino. Silenzioso, alle volte pungente come i mie ricci, spesso più ignorato che accettato. In questo primo esile sole, portato da aria ancora fredda, nulla si rammarica nel mio cuore, perché sono ben consapevole che la fortuna e la mala sorte sono come la pioggia ed il sole, a fasi alterne ti colpiscono sempre, senza complotto o memoria. Comprendo ora, cinto da asettici fogli grigi d’asfalto, che ogni varietà di pianta, a suo modo, dovrebbe esistere per creare un paesaggio e che non esiste un albero perfetto, ma solo il luogo migliore dove esso possa venire messo a dimora. Allora spero che questo stesso vento, trasporti i figli miei, sbocciati nella stagione della gioia, in luoghi o in terre più adatte alla creazione di un luogo naturale, di un vero panorama. Spero che ciò possa avvenire prima che ogni cosa intorno a me sia diventata di plastica o cemento, allorquando anch’io, disilluso amante della vita, facilmente ambirò nella mestizia, al fuoco d’un camino.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento