A chi c'è stato
o solo m'ha pensato,
nell'afa oppur nel ghiaccio
gli dedico un abbraccio.
Non brindo col veleno
l'orizzonte mio è sereno,
non cerco il paradiso
ma solo il tuo sorriso.
La mente sta nel vero
se l'animo è sincero,
nel cuore non ho inganno
se t'auguro buon anno.
Stefano Camòrs Guarda
giovedì 28 dicembre 2017
giovedì 21 dicembre 2017
Auguri a tutti dal Presepe delle modernità
Lucine, musichette e vetrine addobbate. Frenesia, ansia e acquisti compulsivi, la città è pronta: sta arrivando Natale. Ecco come ogni anno, nonostante l’anagrafe mi sia amica, la mente m’induce a pensare come se fossi un ultracentenario.
Mi spinge a riflettere, sul senso, sulle radici di questa festa, che è diventata un vero circo equestre di stranezze. Non troverò risposte, già lo so, ma come ogni anno l’istinto primordiale mi apre il portone di una piccola casina di cartapesta, in cerca
di quella luce fioca, di quella culla vuota che per me ha un solo volto, quello della speranza. Lo so, sono demodé, obsoleto, fuori luogo, noioso, pesante e cerco ogni anno di migliorare nel mio percorso di standardizzazione consumistica. Ecco allora che
dopo un tetro halloween, un virulento Black Friday e un tecnologico Cyber Monday, vado incontro al Natale urlando al mondo il mio augurio di Merry Amazon a tutti and Happy New Tim. Cantando agli angoli delle strade “we wish you a Unieuro, and happy Fastweb”.
La gente mi sorride, hanno capito che mi sono convertito, arreso, che sono finalmente diventato uno di loro e mi saluta, mi sorride powered by Mentadent Whitening, mi abbracciano senza emanare cattivi odori e io mi riempio di gioia, ringraziando Rexona antiodorante.
Arrivo alla piazza dove viene realizzato il vero Presepe vivente aggiornato e moderno. Nessuno guarda, ma l’immensa folla filma con telefoni e tablet i figuranti. Nella stalla la culla hi-tech con dolby sorround Bose è giustamente vuota e la Vergine è sul
sito della CAM il mondo del bambino in cerca di offerte, ogni tanto alza lo sguardo e incontra quello di Giuseppe mostrandogli il dito anulare. Giuseppe ricorda improvvisamente che, prima di lasciare i curriculum ai sacerdoti del Tempio, Adecco, Randstad e
Manpower, deve andare a ritirare l’anello Bliss e il bracciale Pandora, altrimenti apriti cielo (anche se Pasqua è ancora lontana). I pastori arrivano alla capanna con le pecore di cashmire leggero Falconeri e raggiunta la Vergine si fanno i selfie. L’Angelo
scende dal cielo annunciando mi manda l’Invictus by Ugo Boss, riempiendo l’aria con il profumo dell’eternità. Le donne del villaggio porteranno del cibo alla capanna, ovviamente solo dopo essere passate al vaglio della seconda trinità: Cracco/Bastianich/Cannavacciuolo.
Nascerà il Signore e arriveranno i Magi a portare onori e offerte. I nuovi magi saranno Melc..artiér con l’oro e gli Swarosky. Baldassarre con il furgone del signor Balocco, porterà i biscotti incenso e cannella, biologici e senza glutine,
invitando a fare i buoni. Infine Gaspare, che rivelerà finalmente come la mirra serva da ingrediente segreto nella creazione dei Thun. Schiere di angeli canteranno “Yessa” e bevendo caffè loderanno il nascituro.
Mi sveglio agitato. Dove sono? La camera da letto è buia, mia moglie dorme accanto a me, ci avvolge il silenzio. E’ stato un incubo, meno male, non può essere questo il Natale. E’ ovvio che quello che ho sognato non può essere la realtà,
ma pura follia. In fondo la gente ha capito che il valore della festa è un abbraccio a mani vuote da chi ci vuole bene. Che il ventisette di Dicembre ci si sorride ancora, poi ancora e ancora. Le persone hanno capito che la mangiatoia vuota dove Gesù bambino
deve nascere ogni mattina, è il nostro cuore.
Mi sdraio nuovamente, il cuore mi batte forte. Ho il terrore di riaddormentarmi e di ritornare nell’incubo. Sono un po’ spaesato, fatico a capire se il sogno era prima o se sto sognando adesso. Sono confuso, come ogni cosa che mi circonda.
Il mio augurio, per me e per tutti, è quello di ritrovare lucidità, la limpidezza nello sguardo verso le cose che hanno davvero un valore. Intorno a me è ancora buio, mi rilasso un po’. Mi sento rinfrancato, passerà anche il Natale e non avrò più la necessità
di pensare a cose serie.
Buon Natale
Stefano Camòrs Guarda
martedì 19 dicembre 2017
Corro
Grigio antracite, scuro e rovente l’asfalto. Beige, marrone, rosso cupo di terra arsa e sassi incastonati in questo polveroso sterrato. L’occhio fissa il terreno, cerca di prevenire l’inciampo; illuso. Le gambe si muovono ritmiche, incuranti
del panorama loro attorno, delle compagnie o dei pensieri che ronzano più in alto, come moscerini tra graspi ammuffiti. Non importa se intorno ci siano palazzi, ringhiere di siepi o colli lievemente ondulati, né monti aguzzi, né laghi, mari o infinite visuali,
nella corsa entro in corridoio astratto. Un tuffo seguito da una concentrata apnea; che tutto allevia nella sua ovattata dimensione. Non un’avanzata forsennata, no, nemmeno una camminata rapida, il passo giusto, quello che diventa piacere, fuga, cura. Non
corro contro di me, ma per me. Non gareggio, non m’importano medaglie o tempi, medie, cancelli. E’ una filosofia, uno stile di vita. M’immergo in un liquido denso e confortante, nonostante là fuori ci siano gelo o caldo torrido, ghiacciai o dune. Il mondo
implode e si concentra in minuscola sfera nella mia mente, governabile, poggia il suo baricentro in armonico equilibrio. Il ritmo del cuore, del respiro, il calpestio delle suole diventano musica e danzo verso un luogo irraggiungibile. Non ho meta, non ambisco
un traguardo, ma anzi la speranza è che il mio movimento raggiunga la notte e poi ancora il giorno e così via, senza bandiere, dogane, confini. Improvvisa una freccia mi lacera il petto; la fatica, la sofferenza, cercano di sfondare la porta del mio bastione.
La battaglia è cruenta nella mente e vessilli di follia sventolano tra le schiere del nemico, tra i fulmini della tormenta. E’ il tempo del coraggio, della sopportazione. La tempesta cessa, la battaglia termina e torna la quiete, temporanea. In fondo quella
battaglia m’intriga e belligerante vado in cerca di guerra. Corro, senza un motivo apparente, calcando lo spazio e fluttuando nel tempo. Cometa tra paesaggi di vite e sogni rubati. Corro.
Stefano Camòr Guarda
Stefano Camòr Guarda
giovedì 30 novembre 2017
Il volto della mia terra
Poi capita, senza che lo avessi previsto, che incontri un volto sulla tua strada, che ti cambia la prospettiva. Non un viso reale, ma una semplice fotografia e neanche di ottima qualità. Una foto ingiallita, un po' sgranata (perchè antica, di fine ottocento) e rovinata sui bordi, eppure capace di bloccarti, di farti perdere il fiato e la ragione. Un volto di donna o forse il vero volto della mia terra.
Il bianco e l'ordine di quei capelli, che mi indicano la purezza delle nevi là in alto, appena più alte della mente, dove solo il cuore è il vero benvenuto. Un bianco protetto da un velo, come riparo dal sole e per un atavico pudore, rispetto verso ogni cosa ci circondi. Come i nostri ghiacciai quel rispetto si sta sciogliendo al sole della rilassatezza, della superficialità. Quel velo smarrito in una soffitta polverosa.
Il nero di quegli abiti lisi ma disgnitosi. Abiti scuri che hanno assorbito il fumo delle migliaia di notti passate al cospetto d'una stufa, sgranado rosari in preghiera, perchè dopo l'immane fatica che l'uomo può esaurire rimane solo Dio. La semplicità dei drappi di stoffa che trasuda l'essenza delle cose, la funzione per cui furono concepite e mai un effimero e inutile apparire.
Le mani stanche e scarne, ma forti. Nonostante il patimento ancorate alla vita e alla fede, da far passare tra le dita in grani di legno, perchè la vita, il proprio credo è materia: si tocca nei campi, si tocca nella preghiera. Fede che è innanzitutto il ringraziamento per il poco che si ha, del legame con la natura. La richiesta al divino che si possa mantenere quello che si è conquistato, quasi mai la bramosia che venga concesso più del necessario.
Poi arrivi ad osservare il volto di quella donna e ti perdi nella storia della tua terra. La pelle della fronte, aggrottata dalle mille difficoltà, intarsiata nei solchi lasciati dall'aratro del tempo. Un viso serio, ma non severo, emerge una bontà materna che sfugge dal condizionamento della miseria; perchè l'amore di una madre non concede la sconfitta nemmeno davanti alla fame o alla carestia, alla morte. Un volto usato, che ha dato più di quanto era lecito chiedere. Mai però si è risparmiato, perchè è nel poco che è immensa la generosità. Un dipinto in cui è rappresentato un paesaggio, un panorama, che congiunge la fisicità della terra allo scorrere del tempo.
Ma sono gli occhi ad ammutolire il viandante che là dentro viene imprigionato. Due lanterne nella nebbia, due piccole scheggie di brace. Rappresentano l'orgoglio di aver combattuto sempre, di essersi sempre rialzati, anche se feriti mortalmente dal destino. Occhi onesti, sinceri di chi ha amato la sua terra e la sua vita, nonostante tutto. Due spicchi di un cielo plumbeo, perchè sta terminando anche l'autunno e l'inverno bisbiglia il suo nome dietro la porta. Occhi tristi, non per sé stessa, ma per il peso nel cuore che vede la sua terra ignorata, ferita, stuprata. Quella terra che ha assorbito i suoi sogni, le preghiere e il suo sudore, viene distrutta senza rimorso alcuno dal sangue del suo sangue. Un paesaggio, quello in cui è avvenuta la sua vita, che non esisterà più. A parte lei, nessuno ricorderà nulla di ciò che era prima. Allora quel legame, nel ricordo, sarà ancora più forte e insieme andranno a popolare la terra dei dimenticati; almeno fino a che qualcun'altro si fermi davanti ad una vecchia e semplice foto, che da un volto alla propria terra e si conceda un istante di pura immersione, nelle radici del suo animo.
Occhi tristi
Occhi tristi è delicata
come l'aria, al cambio di stagione
quando viene il magone.
Riservata come le ombre
che d'autunno nel sottobosco
fan sembrare tutto più cupo, fosco.
Confusa siede
su quella panchina, dimenticata,
anonima come le foglie, ignorata.
Osserva un cielo
che non le appartiene,
rallenta il sangue nelle sue vene.
Solo il silenzio
o un tenue frusciare,
la vita alla soglia, la vuol salutare.
Scende la sera
che tutto concilia,
non un addio, ma quieta vigilia.
Passa di nuovo
lieve la brezza,
ricorderai sempre la dolce carezza.
Stefano Camòrs Guarda
#ascuoladiumiltà
mercoledì 22 novembre 2017
Il custode del tempo
Quando arrivi a Cicogna capisci che lì la Val Grande comincia davvero. Gente ne vedi poca, soprattutto se ci vai nei giorni della settimana, quando i pochi residenti devono scendere per andare a lavorare. Capita allora che costeggi il cimitero e segui lo sterrato fino alla piazzola elicottero; poi da laggiù solo sentieri percorribili a piedi. Da quella parte vai verso gli alpeggi di Montuzzo, e più avanti Velina. Borghi fantasma, per lo più abbandonati e diroccati, solo qualche
sparuta baita di appassionati è stata rimessa in condizione di agibilità. Lì è scomodo. Scomodo arrivarci, ci vuole quasi un’ora, scomodo rimanerci, difficilmente si ha acqua corrente e luce. Però lì è vero, aspro, nulla di addomesticato. Il nostro istinto
questo stato lo percepisce e per tutto il tempo rimane in balia del timore, della reverenza, quasi dell’inquietudine. Poi si finisce per innamorarsene. La natura è la padrona e l’uomo è ospite, neanche tanto desiderato. Te lo fa capire, lo fa intendere con
superiore distacco e indifferenza. Laggiù o sei capace d’arrangiarti o sei finito. In quel luogo conobbi un uomo, uno che sapeva cosa e come fare. Una persona che aveva scelto quel luogo e quel luogo aveva accettato lui.
Gianfranco, era della Valtellina o più o meno di quelle parti, mi raccontò lui un giorno all’alpe velina, mangiando del salamino di capra selvatica. Era scalzo, con le piante dei piedi che parevano suolate di gomma vibram, e mi parlava
con semplicità e lucidità. La solitudine quotidiana, interrotta dalle sporadiche visite, gli regalavano scorci di una vita lontana, che aveva scelto di abbandonare. Una vita mai rimpianta. Lo rincontrai altre volte, quando aveva sistemato una baita nell’alpeggio
di Montuzzo, per passarci la stagione invernale. Quel giorno eravamo soli e mi raccontò la sua storia.
Passò l’infanzia in un collegio che pareva più un orfanotrofio. In realtà una madre l’aveva e le voleva bene, ma abbandonati dal padre, la madre non potendolo mantenere dovette darlo in affido ad un Istituto. Le regole erano davvero
rigide e la libertà del suo spirito poco si addiceva a quell’impronta educativa. Appena poté abbandonare quel posto, lo lasciò e partì in cerca del suo destino. Fece i lavori più svariati e si pagò la patente per la conduzione degli autobus, con la quale trovò lavoro
nel paese di Sesto Calende come conduttore. La domanda più spontanea, sicuramente anche la meno originale che potessi fare, fu come fosse finito a fare l’eremita in Val Grande. Con un sorriso compiaciuto, mi rispose di avere sempre sentito che la modernità
in cui viveva, in realtà non gli apparteneva. Si sentiva disadattato, sapeva di non essere del tutto convenzionale, sia nei modi di fare che di pensare. Aveva una profonda passione e rispetto per la natura, e quando alcuni colleghi gli fecero conoscere la
Val Grande rimase ammaliato.
Un giorno mentre stava guidando il bus, un ragazzino gettò dei rifiuti dal finestrino. Gianfri, se ne accorse e fermò il bus. Andò vicino al ragazzo e con la delicatezza e gentilezza che lo contraddistingueva, gli chiese di scendere
e raccogliere ciò che aveva gettato a terra. In quel momento, non solo fu schernito dal ragazzo in questione, ma anche minacciato e insultato da tutti quelli che erano sul bus. Ricordo ancora la frase lapidaria che seguì -
in quell’attimo capì che quello non era più il mio mondo. Spensi l’autobus e lo lasciai lì, con tutti sopra che si chiedevano cosa avevo in mente. Io semplicemente scesi e a piedi raggiunsi il comune, dove formalizzai le mia dimissioni. Avevo deciso di venire
a stare da solo qui su.
Da lì Gianfri, diventò l’eremita della Val Grande, l’uomo che a piedi seguiva gli spostamenti di daini, cervi e cinghiali. Non era vegano, vegetariano o altro. Sicuramente non carnivoro. Si nutriva, diceva -
di ciò che il bosco offriva. Molti lo hanno conosciuto e molti lo hanno avuto come compagno di cammino. Aveva un suo particolare carisma e alcuni avrebbero voluto specularci sopra. Mi raccontò che una persona, una volta, venne a dirgli che volevano
fosse ospite del Maurizio Costanzo Show. Lui rispose, senza cattiveria o astio, che per lui non c’erano problemi, ma che se Costanzo voleva parlargli sarebbe dovuto venire lui in Val Grande.
Questa breve storia, veritiera o forse no (poco importa) non vuole creare un mito, ma solo ricordare una persona speciale che mi ha fatto molto riflettere. Prima di salutarci per il mio ritorno a casa, accompagnandomi a piedi durante
il cammino, mi disse: - La Val Grande non l’abbandoni mai, se l’hai nel cuore è sempre con te. Qui io mi sento la persona più ricca del mondo. La persona più ricca è quella che non corre il rischio di perdere niente. Un giorno io chiuderò gli occhi e partirò
per una altro viaggio, senza lasciare o perdere nulla.
Gianfri era questo: un’ombra nel bosco, il fruscio dell’aria, lo scricchiolio del legno. Da qualche anno Gianfri è partito per l’altro viaggio, chiudendo gli occhi e non perdendo nulla. Qualcuno ancora trova delle impronte di
piedi scalzi nella terra umida, tra i castagni secolari e i sassi ammassati, dimore di bisce e di ragni. Io non ho mai avuto dubbi sul fatto che in un modo o nell’altro, la Val Grande, non l’avrebbe abbandonata.
Stefano Camòrs Guarda
martedì 14 novembre 2017
Difficile da spiegare
…è veramente difficile da spiegare, perché è come se fosse un attacco batterico, dove diventi vittima solo se hai un sistema immunitario indebolito. Anche in questo caso è così, però il sistema immunitario è lo stampo culturale in cui siamo
cresciuti. L’educazione che abbiamo ricevuto fin da quando eravamo piccoli. In ogni ambito, familiare o scolastico, laico o religioso quale fosse. Mi trovo a dubitare di ogni cosa, perché intorno a me vedo uno stuolo di gente buona, soddisfatta, compiaciuta
e integrata, ma che al più piccolo cedimento crolla. Ovviamente nel disinteresse collettivo, perché finché sei omologato ad uno standard puoi permetterti di essere quello che sei, ma la debolezza, quella no, non mostrarla, è contagiosa. Debolezza è solitudine,
retaggio del nostro passato in cui la razza (sia uomini che donne) dovevano essere sorretti dal super-io. Ma se quella era la dottrina con la quale si faceva colazione, pasto e cena, dov’è finita? Forse una generazione nata a stomaco pieno, non ha più fame.
Dov’è finita quella forza di sopportazione, la capacità di incassare sonori schiaffoni dal destino? Cadere aiuta a prendere le misure dal terreno la prima volta, la seconda metto le mani prima di picchiare la faccia e forse la terza sbando ma mantengo l’equilibrio.
Questa capacità va allenata affrontando in questa maniera le cose a partire da quelle piccole. Certo bisogna anche trasferire i suggerimenti, ma l’esperienza si acquisisce auto-testandosi e non nascondendosi o legandosi al burattinaio che muove le azioni.
Davanti a questo panorama, guardando le città dall’alto mia chiedo quanti percepiscano questa sensazione di inadeguatezza, perché privi della libertà. Libertà di provare, di sbagliare, di cadere. Libertà di fare fatica, di sporcarsi, ma anche il gusto di rialzarsi.
La sicurezza ha inchiodato e ingolosito per anni le generazioni, che però arrivavano da una condizione di miseria o quasi. Era abbastanza facile prevedere che andasse così. Questo processo “evolutivo” però non può essere visto come una curva che sale all’infinito,
anche perché le ultime generazioni non provengono più da uno stato di miseria. Nascendo più o meno nel benessere, esso stesso diventa metabolizzato. Si innesca il principio dell’assuefazione. Lo si da per scontato. Il benessere “moderno”, molto spesso sinonimo
di superfluo, viene considerato un diritto acquisito. Il problema è che ogni diritto in più va a scapito di qualcun altro, sia che provenga da paesi del terzo mondo o che sia di una generazione prossima ma non ancora nata. Decade lo spirito e la forza della
sopravvivenza, quella vera, fatta di idee e tentativi, di sostanza; prevaricata dalla voglia di apparire, di mostrare però solo le meravigliose decorazioni di un involucro dal contenuto inesistente. Annegare nella disperazione, nell’ansia, riconoscendosi come
abitanti di questa cerchia o almeno parzialmente partecipi. Non è un pensiero triste, sconsolato, ma tutt’altro è una deflagrazione. Una scheggia di consapevolezza, di lucidità, quando irrompe alla vista la bellezza gratuita della natura che rinfaccia la completa
inutilità dell’umanità sulla terra. Quando è il silenzio a riempire la vastità degli spazi e lascia capire a quei pochi neuroni illesi, quanto la nostra indole, il nostro istinto, soffocato da mille sciocchezze, sapesse che la direzione era completamente sbagliata.
Davanti allo stupore inaspettato che un paesaggio può generare, mi angoscia la consapevolezza di tutto ciò che è sempre stato gratuito e da noi ignorato. Quanto peso ho dato ad una carezza ricevuta, quale valore ho compreso di un sorriso o di una chiacchierata
fatta tra amici. La risposta, almeno nel mio caso è lapidaria: poca. C’è l’esasperazione ad entra in quel circolo vizioso che è la ricerca di un ambito in cui auto-celebrarsi, convincersi di generare in altri ammirazione. Invece è l’esatto contrario, inseguiamo
così tante illusioni che alla fine ignoriamo che ciò di cui abbiamo bisogno non era arrivare in vetta, ma era mantenere salda la cordata. Non si ha più il senso della misura, forse perché non si ha più il senso di praticità delle cose. La maggior parte di
noi occidentali trova tutto “a scaffale”. Non si comprende più quanto sia costato, in termini di fatica, fare una determinata cosa. Allora la si sottovaluta, la si sminuisce e questo porta non a godere del valore delle cose, ma nel solo bramare quelle che
ancora non si hanno. Una spirale di follia pura. Non posso sapere con certezza se un futuro con la pancia vuota sarà la cura per fortificare una generazione, ma di certo questo è quello che aspetta a chi non inverte il passo e cambia il sentiero. Se fino
ad oggi abbiamo seguito un percorso e ci stiamo accorgendo che quella via ci sta portando sull’orlo del precipizio anziché in vetta, ad insistere su quella strada non si è tenaci, si è cretini. Dobbiamo riscoprire la nostra dimensione reale, e la misura alle
nostre necessità: se ho freddo accendo un ceppo di legna, non appicco il fuoco ad una intera foresta. Se ciò fosse ancora possibile, ritornare ad una concreta percezione di quello di cui si ha davvero bisogno, sarebbe una svolta epocale. Il benessere, inteso
come star bene con gli altri e non sulle spalle di altri. Il buon vivere indirizzato come l’avere solo ciò di cui ho bisogno per essere libero, non ciò che necessito per illudermi di essere privilegiato rispetto ad altri. Quanti che hanno solo generato invidia
vengono ricordati. La strada per l’oblio comincia sulla terra dei vivi. Prendiamoci il tempo per godere di ciò che è bello, di ciò che ci viene donato senza un secondo fine. Di ciò che ci arricchisce non riempiendoci le tasche di vizi, illusioni e dipendenze.
L’economia esisterà sempre, perché esistono le interazioni tra persone nello scambiarsi i prodotti delle proprie abilità, virtù. La speculazione è una nebbia che offusca l’orizzonte, ma basta attendere che il sole la dissolva e torneremo a vedere la vera bellezza.
Pazienza, costanza e umiltà d’animo; se davvero insegnassero questo saremmo un mondo perfetto. Parole di un illuso e fallito, forse, ma che vede vibrante nelle sfumature dell’orizzonte, il germe della speranza.
Stefano Camòrs Guarda
#ascuoladiumiltà
Grazie a Stefano Torresan per la bella foto
sabato 7 ottobre 2017
Il "Rosa" nell'anima
15 Novembre 2017
Ore 20.45
Villa Pomini, Castellanza (VA)
serata inclusa nella rassegna "La montagna raccontata", organizzata dal CAI di Castellanza.
“La cosa più
abbondante sulla terra è il paesaggio”. Con questa citazione dall’incipit
del libro “Una terra chiamata Alentejo”,
del Premio Nobel per la letteratura Josè Saramago vorrei introdurre questa serata dedicata ad
un profilo che da sempre caratterizza il paesaggio appunto, della nostra terra:
Il Monte Rosa. L’idea ha radici lontane e nasce da una mostra fotografica, di
Mauro Del Romano, dal titolo “#36 vedute
del Monte Rosa”, in omaggio al maestro giapponese Katsushika Hokusai ed ad
alla sua opera 36 vedute del Monte Fuji.
Hokusai dipinse il profilo del Fuji, per onorare una
montagna sacra nella cultura del Giappone, ma anche per materializzare l’affetto
verso quel profilo che caratterizzò il panorama della sua vita.
Così, tra il Dicembre 2016
e Gennaio 2017 , la mostra “#36
vedute del Monte Rosa” ha materializzato l’attenzione, l’affetto e la
bellezza che i cittadini della provincia varesina individuano e assaporano in
quella montagna nell’orizzonte di Nord-Ovest.
Dalla comune passione per la montagna, e il Monte Rosa in
particolare, è scaturita l’idea di una
evoluzione e collaborazione come tributo emozionale al Monte Rosa visto da
lontano e al profondo legame che si genera nei riguardi della sua figura,
caposaldo nel panorama della terra d’Insubria. Un connubio che unisca le
meravigliose immagini catturate da Mauro con le poesie Stefano Camòrs Guarda,
cercando di creare un motivo d’ispirazione che porti all’affioramento degli
aromi della bellezza estetica del monte e che materializzi, al contempo, il
gusto del pensiero recondito che tale immagine genera nella mente e nell’animo
umano.
Il progetto nasce come reading poetico, didascalico della
proiezione fotografica, accompagnata da sottofondo musicale che prende il nome
di: Il
“Rosa” nell’anima.
L’evento è costruito sulla base di 20 foto e 20 poesie,
suddivise nelle quattro stagioni dell’anno. Annualità, che oltre a catturare le
più vibranti sfumature di luce riflessa dalla montagna, richiama un’analisi più
intimista di altre prospettive, utilizzandola come metafora della vita umana.
Un viaggio nel tempo e nello spazio, che parte dal lontano
Giappone del secondo ‘700 per giungere al Varesotto del terzo millennio,
consapevoli che se anche cambiano gli orizzonti tecnologici, la riscoperta di
ataviche emozioni diviene semplicemente umana
sopravvivenza.
martedì 19 settembre 2017
Denso
Tutto diventa lento, denso,
pesante e torbido.
L'intensità s'affievolisce
d'ogni cosa.
I tramonti si smarcano;
ambisci di giornate il finire,
mai tempo del vivere.
Abbracci la notte
che porta lontano
e solo, stordito
nel limbo fuggevole,
nascosto e vago.
L'animo si veste
dei colori d'autunno
e socchiudo gli occhi,
arreso scompaio.
Camòrs 2017
#immedesimarsiinunquadro
Munch-disperazione
pesante e torbido.
L'intensità s'affievolisce
d'ogni cosa.
I tramonti si smarcano;
ambisci di giornate il finire,
mai tempo del vivere.
Abbracci la notte
che porta lontano
e solo, stordito
nel limbo fuggevole,
nascosto e vago.
L'animo si veste
dei colori d'autunno
e socchiudo gli occhi,
arreso scompaio.
Camòrs 2017
#immedesimarsiinunquadro
Munch-disperazione
giovedì 31 agosto 2017
Penombra d'autunno
L'odore delle prime gocce
di una pioggia che strappa,
agguanta il caldo nei semi
e li spaventa, paralizza.
S'avvia il banchetto
della formica, il dramma
della metaforica cicala.
Lenta s'arrende anche la luce
nel ravvivarsi d'umidità,
il mio animo rammenta
profumi di malinconia,
come chiocciola striscio
in penombre di solitudine.
Camòrs
di una pioggia che strappa,
agguanta il caldo nei semi
e li spaventa, paralizza.
S'avvia il banchetto
della formica, il dramma
della metaforica cicala.
Lenta s'arrende anche la luce
nel ravvivarsi d'umidità,
il mio animo rammenta
profumi di malinconia,
come chiocciola striscio
in penombre di solitudine.
Camòrs
lunedì 10 aprile 2017
Elogio del “poco difficile”
Nel tempo e nelle continue
frequentazioni, ho vissuto personalmente come l’approccio ad una scarsa
difficoltà tecnica venga ad un certo punto “snobbato” nella ricerca del
perfezionamento e dell’autocompiacimento. Questa continua ricerca di
miglioramento però, volge a discapito di tutti gli altri aspetti che la
montagna o un’esperienza in generale possa offrire. Nei discorsi da Rifugio,
alle volte ho la percezione che vi sia quasi un’assuefazione alla difficoltà e
all’adrenalina, tale per cui, bisogna per forza di cose alzare “sempre” l’asticella, altrimenti si ha la
percezione di sprecare il tempo. Credo, oggi più che mai, che non sia affatto
così e ne ho avuto la riprova, una volta ancora, percorrendo la nuova via
ferrata sopra Baveno (VB) dal nome “Dei
Picasass”. Ovviamente ciò non deve essere considerato come una volontà di
regressione, ma come individuazione e valorizzazione di uno spettro più ampio.
Bene, la via è appunto classificata “poco
difficile”, ma già questo non deve far germogliare in alcune menti la
malsana idea che poco difficile sia sinonimo di facile o peggio di banale; in
montagna di “banale” non c’è nulla. Ma
tornando a noi, ritornare una volta ogni tanto ad una difficoltà inferiore,
permette di potersi concedere molte più occasioni di “buone distrazioni” su ciò
che ci circonda. Per una volta lasciare fuori dallo zaino l’orgoglio della
performance ad ogni costo e abbandonarsi ad una lenta e corroborante
contemplazione. La giornata di ieri è stata, in questo senso, un toccasana:
quota bassa, temperatura gradevole, difficoltà limitata, panorama mozzafiato
sul lago Maggiore, ma soprattutto la percettibile vibrazione che nei boschi
trasmette la primavera. Ed è stata subito armonia di affinità elettiva con
l’ambiente che mi circondava. Lo stupore, perennemente rinnovato, che annega
nel verde del germogliato fogliame del Carpino, delle erbe che tentano il
propagamento fuori dalle zona d’ombra e le sparute fioriture di colore. Il
continuo fruscio di lucertole, disturbate dal mio passaggio, che scappano tra
il vecchio e rinsecchito fogliame. Poi ancora, il profumo della pietra, un
granito venato di rosa, che comincia ad assorbire calore e a cederlo nel tepore
del mattino. La mente, non immedesimata nella proiezione del successivo gesto
atletico, si smarrisce nelle sfumature del paesaggio. Non tutto è aulico e
desiderabile, come il vedere l’abbandono della gestione del bosco, le
molteplici carcasse di piante schiantate, che nessuno ha più la necessità di
andare a recuperare. Arbusti, che non potremmo propriamente considerare autoctoni
dell’Alto Vergante, prolificano all’insegna di quel riscaldamento climatico che
molti faticano a comprendere, soprattutto nei rischi dell’apporto della
cosidetta “globalizzazione” anche dell’ecosistema. Poi la vista spazia alle mie
spalle sul lago, sulle isole Borromee, sui picchi inconfondibili della Val
Grande, come il Pedum o lo Zeda, e tutto, anche il rumore dei pensieri nella
testa, si disperde nella vastità dell’orizzonte; e rallenta il battito, il
respiro. Su fino alla cima, contraddistinta dalla Croce, che assume un senso
diverso in questa Domenica delle Palme, e allora pensi anche a quanta fortuna
hai nel poterti permettere di frequentare un luogo in piena tranquillità, senza
la paura di evitare un bombardamento o delle scariche di mitra, ed io lo so
bene. La gioia di poter camminare ovunque, anche di uscire dal sentiero, senza
il terrore che ci sia la presenza infame di mine. Che fortuna davvero, se l’animo
non inorridisce e sconfina in convulsiva follia davanti a frastuono di un
boato; che da noi è solo rumore di tuoni o di effetti pirotecnici. Dopo lo
smarrimento iniziale, davanti alla bellezza che recepiscono i tuoi occhi, ti
rendi conto che i monti e il paesaggio non hanno meriti e non hanno colpe, se
non quella di esistere e di stare lì: tutto il resto dell’intero pasticcio ha
l’umanità e la sua discutibile intelligenza, come unico responsabile.
Stefano Camòrs Guarda
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