Nell’elogiare un testo già famoso, si rischia spesso di cadere in facili retoriche o ridondanti smielate prive di valore aggiunto. Come in parete però, capita alle volte che un piccolo rischio calcolato occorre affrontarlo, ed è questo
veramente il caso. Il testo in questione è Bàrnabo delle montagne, primo libro del bellunese
Dino Buzzati, pubblicato nel 1933. Un libro che lessi a scuola in adolescenza, ma al tempo non mi colpì, almeno non come quando lo rilessi a vent’anni; in quel momento scattò una vera e propria folgorazione. Questo è un libro che ha, a mio avviso, molteplici
sfaccettature e la sua lettura può essere considerata come una guida verso un sentiero strano, quello della condizione umana. L’ambientazione è perlopiù montana e le radici, il ricordo, forse a tratti anche la malinconia di luoghi e di età non più raggiungibili,
emergono come rivoli cristallini, resi ancora più preziosi perché in fase di prosciugamento. Le difficoltà, non solo nelle condizioni di vita, ma anche nei rapporti umani, dove se un errore viene brutalmente perseguito, ma alla fine perdonato: la viltà no.
La descrizione di un mondo dove la paura esiste, è tangibile e si materializza quotidianamente ed è un dovere il tentare di affrontarla; e se non sconfitta almeno respinta. Una battaglia esterna, fisica, drammatica che va combattuta, non ci si può permettere
di esimersi dalla lotta. Una guerra che parte internamente all’animo umano, che deve svestire i panni della fanciullezza e accettare ogni genere di conseguenza il contrastare le vicende della vita possa arrecare. La storia raccontata assume le sembianze di
un’epopea della civiltà, che tenta di lasciare i luoghi più impervi per raggiungere una maggiore semplicità dell’esistenza; eppure l’istinto, irrazionalmente, sente il richiamo e la mancanza delle proprie radici culturali. Dopo quasi cento anni dalla pubblicazione
le parole ancora esplodono di attualità, nel raccontare la nostalgia, il bruciante rimpianto, dell’abbandono forzato della terra natia verso luoghi ove trovare un destino, non migliore o peggiore, diverso. La crudele consapevolezza di non essere stati all’altezza
della situazione, di aver deluso qualcuno che si fidava di noi, e di averlo fatto per mancanza di coraggio. Lo sconforto, l’emarginazione e l’abbandono. La vergogna della debolezza di essere solo un uomo, della propria fragilità. Poi però appare in un cielo
nero una stella, la scintilla della speranza, nell’attesa meditabonda di una seconda occasione e un nuovo ulteriore timore, parallelo: quello di non essere in grado di affrontare neanche una futura sfida. La corrosiva malinconia per i propri luoghi osservati
in lontananza, ma ancora vivi e scalpitanti nel proprio cuore. Questa è la crescita, la catarsi dell’uomo verso l’ignoto futuro. Toccante è la caduta dell’orgoglio, le parole di un vecchio amico che nonostante tutto ricorda anche il buono che c’è stato. La
presa d’atto che esiste un tempo per il ritorno. Quasi senza accorgersene, il bagaglio di virtù e di errori si è mescolato, fuso insieme, ed è diventato esperienza, forse addirittura saggezza. Solo allora lo sguardo non teme più il confronto e non si abbassa
verso il terreno. Osserva dritto in faccia, allunga il suo orizzonte verso una luce che diventa costantemente sempre più tenue. La seconda occasione, quella del riscatto, della pacificazione con il proprio passato, arriva e viene affrontata senza indugi, ma
al contempo due attori si affacciano nuovi al palcoscenico della vita: l’umiltà e la compassione. Ecco che la conoscenza, come la luce del tramonto cambia il panorama, emergono sfumature, sembra variare la prospettiva e le logiche. L’accettazione del proprio
vissuto ad una più ragionevole sentenza.
Infine la decisione di vivere nella solitudine, nell’abbraccio dei ricordi e della materna terra d’origine. Il valore della maturità personale, del silenzio, della gratitudine verso ciò che è, che è stato, buono o doloroso, bello o brutto.
Un ultimo pensiero prima della fine definitiva, il riappacificarsi con sé stessi, perdonare e perdonarsi, è l’unico modo per abbracciare il mondo nella sua gelida equità.
E’ indubbiamente un racconto che non può lasciare indifferenti, se si trova una personale chiave di lettura diventa una sfumatura di sé stessi. Il brano è teso e immediato, brillante nella narrazione e nel generare immedesimazione. Sicuramente
un libro fondamentale per le persone di una fascia verso la maggiore età, perché comprendano l’importanza di conoscere chi sono, qual è la propria terra e il proprio passato, e con quella consapevolezza affrontare il viaggio verso quella terra oscura chiamata
futuro. Un testo che andrebbe riletto in età più adulta, per ricordare la responsabilità che si ha nel doversi impegnare per la propria crescita personale, ma che essa è strettamente legata a quei sentimenti di umiltà, rispetto e armonia verso tutti gli altri
elementi del nostro microcosmo. Un racconto che accompagna il percorso del sole fino dietro il profilo dei monti e lascia il ricordo vivo dei suoi raggi, nel fresco incedere della sera.
Stefano Camòrs Guarda
Nessun commento:
Posta un commento