… giunse ansimante e
turbato, avvolto da sapida disperazione, giunta improvvisa, al pari
d’un temporale estivo. La stagione però, non era più quella e
tutto intorno a lui lo stava dimostrando da tempo. In particolar modo
la natura, agghindata a festa di colori vivaci e profondi, ammaliante
fanciulla nel pieno della maturità. Lui però, non aveva mai colto i
segnali del mutamento, era troppo impegnato, troppo concentrato.
Aveva un compito, un solenne dovere, un personale auto inflitto
precetto, occuparsi della sua famiglia e del loro benessere.
L’errore, capì solo in quel momento giungendo alla soglia d’un
abdicante sole cremisi, era stato quello di estraniarsi dal mondo, di
isolarsi nella sua personale battaglia, di violare la propria umana
natura per un valore che superficialmente riteneva superiore. Era
giunto addirittura a bramare lo scorrere del tempo, per cogliere
frutti e accumulare auree messi. Fu proprio questa crescente
sensazione d’angoscia, di mal interpretazione ad accoglierlo nel
teatrale tramonto, fregio prezioso nei suoi occhi increduli e umidi.
Laggiù, immersa nei primi lembi d’una setosa oscurità, cominciò
a risplendere la prima stella della sera, la spietata e brillante
consapevolezza. Rimase immobile, imitando le fattezze dei tronchi che
erano a circondarlo, piegati a contorte nodature di sofferenza.
Avvolto da violenti colori sfumati, che parevano evasi da tele
fiamminghe, riconobbe il suo sbaglio.
Capì d’aver sempre
lottato per un futuro inesistente, per quella finta immagine di
promessa sicurezza, d’una falsa quiete, cantata da moderne sirene,
malvagie e mendaci. Eppure era così semplice, pensò, era così
evidente. Era il puro dualismo universale a palesargli ora lo spreco:
ogni giorno in più è un giorno in meno. Ogni persona conosce
il suo destino, dal primo istante di vita, eppure ogni mente è così
stolta da illudersi di avere infinito tempo a disposizione. Infame
inganno forse, figlio di vigliaccheria, subdolamente giocato da un
inconscio pavido nel terrore della morte. Uno sforzo, un eccesso, per
trovarsi poi a riscuotere una questua di vento con retino da
farfalle. Che spreco, che sciocco.
Si lasciò cadere
sulla panca di legno alle sue spalle, rimanendo a fissare il
meraviglioso gioco di nubi arroventate scomparire nella crescente
oscurità; basta correre, basta ignorare. La stagione entrante era
l’autunno consolatore e riflettendo si convinse che non tutto
andava conquistato, ma che invece avrebbe dovuto spendere del tempo a
scovare i regali della vita; che sono molti e a dispetto
dell’infinito valore, non hanno un prezzo. Comprese, nella brezza
della sera, che da li a poco anche quella stagione meravigliosa
avrebbe lasciato il campo ad altro scenario, brillante di cristalli.
Socchiuse gli occhi e pensò che in fondo la vita andrebbe vissuta di
più nel presente, perché in fondo, ha la stessa durata di una
giornata invernale, dove il buio arriva presto.
Camòrs
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