Diario di un uomo sospeso…
01 Febbraio 2016, Rincorro un miraggio di diversità
nella natura dormiente.
Certo qui a
Busto non c’è un gallo canterino che può svegliarmi all’alba, eppure alle prime
luci mi si spalancano gli occhi. L’animo è tormentato e non trova la serenità
nel riposo; non che mi stupisca più di tanto, sono l’uomo sospeso. Ho bisogno
di sfogare le energie represse di una vita che sta diventando vendicativamente sedentaria.
Dopo anni adolescenziali instancabili fino alla soglia dei trenta, con
l’obbiettivo di scoprire i miei limiti fisici e mentali nella sopportazione e
nello sforzo, eccomi, alla soglia di ben altra decade, a dover combattere per
una blanda corsetta di una manciata di minuti. Adesso però tutto tace, è l’alba.
Ho addirittura quasi due ore prima che qualcuno reclami latte e cartoni
animati. Mi vesto bene, anche se non fa freddo per niente. Musica nelle
orecchie e via di nuovo, come un tempo.
Le gambe
sono di ferro, accipicchia che frustrazione quando mente e corpo non sono
allineati. Trovo un ritmo giusto, per pensare, per respirare rilassato, per
godermi il momento. La città è quasi deserta e il vialone alberato che mi porta
fuori, verso la campagna, mi regala anche qualche arabesco di nebbia. E’ forte
e amabile l’odore d’umidità che mi raggiunge appena compaiono i primi prati del
Parco Alto Milanese. Inizio a sentirmi bene (nonostante le polveri sottili), la
ruggine si sta sgretolando dalle giunture e rovinosa l’abbandono sullo
sterrato. I sentieri nel bosco sono ancora in penombra e l’immobilità sembra
regnare sulle cose che mi circondano. Il ritmo della musica e il battito
regolare del cuore cadenzano il mio incedere. E’ una sensazione meravigliosa.
Ogni cosa è ancora spoglia nelle proprie vesti invernali, ma comunque trasuda
fascino ed eleganza. Un turbine d’immagini, di peculiarità, di fattezze diverse
s’intreccia e amalgama in un disegno meravigliosamente complesso e unico.
L’unica cosa che accomuna quelle piante, quegli alberi, alcune rocce e la
terra, così come i muschi e le foglie, a terra marcenti, è l’appartenenza a
questo mondo e forse poco altro di biologicamente compatibile. Eppure sono lì
insieme, aggrovigliate e armoniche.
I metri
scorrono rapidi e i primi raggi di sole cominciano a scaldarmi le ossa. Addirittura
in questo balordo inverno intravedo le primule al suolo e l’inaspettato colore
scovato mi fa stare bene, ha un non so che di consolatorio e appagante. La
soluzione al mio stato di sospensione potrebbe essere questo, seguire una linea
d’ottimismo, nel non evitare una costante e rinnovata rinascita. E’ come se
fossi in un costante stato di buio, dettato dalla confusione del mio tempo. Non
mi riconosco e non realizzo ciò che mi circonda. Tutto appare diverso ai miei
occhi da come lo ricordavo, da quello che mi hanno sempre detto che doveva
essere il bene, il giusto.
Comincio
la strada del ritorno, le gambe lamentano qualche segnale di stanchezza, i
minuti e i passi sono volati via velocemente, senza quasi che me ne rendessi conto.
Mi sento stranamente leggero, sollevato più che sospeso, è questa è una bella
sensazione che mi regala il buon umore. Il solo vedere la natura e partecipare
alla sua esistenza, senza distruggerla o contaminarla, mi ha regalato un animo
armonioso per qualche manciata d’istanti. Perché non può essere sempre così?
Rientrando nelle vie della città ricordo le immagini televisive viste il giorno
prima. Giungevano dall’estero. Un gruppo di uomini, per professare l’amore
verso il proprio Dio, si erano fatti saltare in aria uccidendosi e uccidendo
altre persone che amavano un Dio diverso. Ma se amavano tutti un Dio, perché
non hanno cominciato a discutere da ciò che avevano in comune e non da quello
che era differente, ovvero, non potevano incontrarsi sul terreno dell’amore se
non immediatamente su quello della tolleranza verso una religione differente?
Altre immagini riprendevano, invece, due cortei in Italia. Un corteo
manifestava il diritto universale dell’amore a prescindere dal sesso
d’appartenenza, sostenendo che avere una famiglia riconosciuta come tale,
dovrebbe essere un diritto inalienabile di ogni individuo. Le bandiere che ho
visto sventolare non capisco cosa c’entrassero con l’amore. L’altro corteo
manifestava animatamente la protezione di un amore tradizionale e di un
determinato tipo di famiglia, dove a parer loro è ovvio che regni l’amore e
l’armonia. Nella mia ignoranza mi pareva che stessero manifestando per la
stessa cosa: la difesa dell’amore. Addirittura alla fine sono venuti alle mani.
Un marito di una famiglia “normale” ha aggredito a male parole un marito di una
“coppia di fatto”, perché famiglia non la si può chiamare senza che altri
urlino allo scandalo. Hanno finito per darsele di santa ragione, in nome
dell’amore. Il marito urlava che l’uomo deve amare la donna, e poi ha dato due
ceffoni alla moglie che gli diceva di calmarsi. L’altro ruggiva che l’amore è
sopra ogni cosa e non conosce vincoli, e gli ha tirato un cazzottone. Insomma,
ma di cosa stavano parlando? Siamo alle origini del paradosso. Se solo le
persone partissero elencando ciò che è in comune invece di nascondersi sempre
nell’ombra delle differenze. A dirlo sembra così facile, invece è esattamente
l’opposto. Magari poi, dalle buone intenzioni di alcuni, fioriscono e divampano
falsi ideologici e pregiudizi. Come se si potessero classificare tutte le
famiglie composte da madre, padre e figli naturali o adottati come tradizionali,
da quelle con individui dello stesso sesso, magari con i figli avuti da altre
relazioni in precedenza, come scandalose o peggio. A me sembrerebbe più
semplice dividere le famiglie nel cui interno, anche se nelle difficoltà della
vita, ci si vuole bene, da quelle in cui regna l’intolleranza e la violenza. A
prescindere dalla loro composizione. Ma poi alla fine chi sono io per
semplificare così tanto, un problema cosi annoso e delicato?
Nel
frattempo giungo al cancello di casa, l’orologio mi dice che è passata un’ora e
due minuti e che ho corso per tredici chilometri e mezzo. Speriamo che gambe e
schiena non mi presentino il conto domani mattina. Mentre entro dal cancello
osservo due ragazzotti sul marciapiede che si sfottono per la partita della
sera prima, con toni tra il goliardico e l’irritato. Ah già, c’era il derby di
Milano. Non riusciamo nemmeno a ironizzare quando gli argomenti sono delle
emerite cazzate, figuriamoci su quelli seri.
Entro in
casa e trovo i miei figli in pigiama che litigano su quale cartone animato
vedere. Ecco appunto, però gli voglio bene e accetto i loro piccoli vizi e
debolezze. Questo è quello che conta, tutto il resto è alla pari del
milionesimo dibattito sulla sfida Milan-Inter.
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