Mi rispecchio in un cielo che lentamente
si stringe, riduce le tinte di colore. Nell’ultimo spasmo rilancia le sfumature più
forti, e riflette nel cielo il colore della sconfitta, del sangue. Il mio corpo
è appassito come l’erba d’alpeggio, che dopo aver donato spore e sementi a un
ventoso destino, avvizzisce su se stesso quasi implorando mietitura. Solo in
quel modo avrà un’ultima utilità, chiuderà il cerchio della propria vita.
Rientro tra le mura di sasso,
sull’alpe lenitrice la luce sbiadisce e trascina con sé le mie forze. Le membra
pesanti d’antica stanchezza, un eccesso di stagioni forse immeritato, mi schiaccia
alle beole del pavimento. Un lineamento di me compare danzante sulla parete di
legno scuro, quell’ombra senza tempo che morirà senza colpa nel perir della
fiamma. Solo il brillio delle braci rimane riflesso nelle pupille, come un
orizzonte lontano. Il pensiero evapora e si perde nelle terre di confine, viaggia
una terra sconosciuta, dove pochi frammenti di lucidità ritornano alla memoria
in vestigia conosciute. La vita trascorsa diviene storia e il futuro non avrà
un’alba, esiste un solo istante certo. Ho vestito l’abito del pessimismo e il
mantello della malinconia, riflettendomi come il bosco d’autunno nelle acque
scure del ruscello giù a valle, che il sentiero scavalca prima di varcare la
curiosità dei paesani. Scorbutico, amaro e dolce.
Il silenzio è mio compagno e amico,
già, perché proprio da quest’assenza di suoni riaffiorano alla memoria i suoni
del passato. Le voci acerbe dei miei figli, ormai rondini migrate. La gioia
nelle risate, i rancorosi rimbrotti delle sconfitte alle carte, le urla biascicate
dei numeri, lanciati a caso, nel gioco della morra. Anche quei timbri vocali,
irruenti e grotteschi, sono svaniti senza alcun avviso. Li ho persi come si
perde la brezza della sera dopo il tramonto. Come d’un tratto cambia la
stagione e i grilli non friniscono più. Rimani li e il tempo si fa denso,
riesci quasi a percepirlo, afferrarlo. Ma alla fine non vuoi e lo lasci andare,
perché così dev’essere. Tutto è in equilibrio, anche se non riusciamo a comprenderlo.
Improvvisamente sento sul mio
volto il lieve tocco di una carezza, chiudo gli occhi e mi abbandono al ricordo.
Nessun timore e nessuna paura abitano il mio cuore, solo sollievo e voglia di
aprire l’uscio e trovare l’erba rasa incrostata in arabeschi di brina.
Attendere il mutamento del paesaggio nella speranza che tornino presto sorrisi
e fiori selvatici.
E verrà la stagione del freddo,
del ricordo scolpito nella pietra. E saremo fantasmi di nebbia, vapori emersi
da letti di muschio. Saremo liberi, saremo felici. Congeleremo nell’aria dei
ghiacciai, arderemo nelle braci dei cuori, illuminando con gemme di luce,
fuliginose pareti.
Stefano Camòrs Guarda
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