Lo studio, immerso nella penombra, profumava del legno con cui era stata costruita la boiserie che lo rivestiva interamente. File di tomi ornavano con i variegati colori del dorso gli scaffali, come strisce di un mosaico privo di senso. Il silenzio della stanza era avvolgente, sebbene l’atmosfera fosse percettibilmente tesa. Olga e Anna, due sorelle sulla trentina, sedevano sulle poltroncine davanti alla scrivania di noce intarsiato. Olga era la più grande, maggiore di due anni rispetto ad Anna, che in compenso era una decina di centimetri più alta. Dalla morte della madre, le due sorelle si erano allontanate definitivamente nonostante, in adolescenza, fossero state molto unite e orgogliose della loro complicità. Quando Susanna, la madre, le lasciò prematuramente le due ragazze avevano rispettivamente ventuno e diciannove anni. Entrambe rimasero drammaticamente sconvolte nel proprio dolore, anche se reagirono in maniera molto differente. Anna, la piccola, decise di lasciare quel luogo di brucianti ricordi andando a studiare all’estero e, sebbene sentisse telefonicamente il padre di frequente, raramente ritornava in quella casa, facendolo comunque con visite lampo di pochi minuti. Olga invece comprese che doveva rimanere e supportare il padre Giulio che, soprattutto all’inizio, appariva totalmente sopraffatto dalla profonda intensità di quel dolore. Nel tempo i rapporti tra le due sorelle si raffreddarono e, come ruggine sul ferro, cominciarono ad apparire macchie d’imbarazzo e piccoli rancori, resi più acuiti dalla lontananza. In quel tardo pomeriggio ventoso, di fine Maggio, erano di nuovo vicine, sedute nello studio notarile di un lontano parente, al quale era stato affidato dal padre il proprio testamento. Giulio era forse, finalmente, tornato ad abbracciare la moglie, ma le due sorelle dopo una decina d’anni apparivano, negli atteggiamenti e nei modi, come due perfette estranee. Il notaio entrò nella stanza e senza badare a convenevoli lesse lentamente, con distacco professionale gli articoli del codice. Interruppe quella noiosa cantilena solo quando dovette citare due righe, scritte di pugno dal defunto Giulio: “Ogni cosa che posseggo la lascio a voi, ma quella più preziosa l’ho riposta in un luogo particolare per me. Sulla cima del Corno Bianco, in Val Vogna. C’è nascosta tra le rocce una scatolina metallica, contenente la cosa più preziosa che abbia mai avuto. Ora è vostra anche quella, ma alla condizione che andiate a recuperarla insieme”. Le due donne non furono felici di quelle parole, non avevano più affiatamento e, tra le altre cose, Anna rispetto all’infanzia aveva cominciato a soffrire di vertigini. Giulio però conosceva bene le sue figliole e puntò su una caratteristica a lui ben nota: la loro innata curiosità.
Passarono alcuni giorni ed i tentennamenti delle due si alternavano a sprazzi di coraggio, ma nessuna di loro osava fare il primo passo per quel particolare riavvicinamento. Le perplessità facevano da inibitore ad ogni tentativo. La salita sarebbe stata abbastanza lunga e loro non erano più allenate come un tempo, il che voleva significare passare una notte insieme al rifugio Carestia. Il percorso lo rammentavano abbastanza bene, anni prima lo avevano già percorso e non ricordavano difficoltà alpinistiche elevatissime. Passò del tempo e anche quella curiosità iniziale sembrò affievolirsi, distratta dalla ruotine quotidiana; ma la brace rimane viva anche coperta dalla cenere e continua il suo lento lavoro. Verso la fine di giugno, un sabato mattina verso le dieci, il telefono di Olga squillò. Sullo schermo del telefono comparve un numero che non conosceva, così pensò scocciata al solito fastidioso operatore promozionale e non rispose. La chiamata terminò, ma pochi istanti dopo la suoneria ricominciò; era lo stesso numero. Olga questa volta rispose, già pronta a sfoderare gli artigli verso l’ostinazione arrogante di quell’interlocutore commerciale, ma rimase impietrita quando all’altro capo della comunicazione udì la voce della sorella Anna. Anna non le lasciò il tempo di pronunciare una sillaba ed espose a raffica: “Olga sono qui a Riva Valdobbia, ho visto il meteo e le previsioni sono ottime. La cima del Corno Bianco sembra pulita e il Carestia apre per il fine settimana. Ti aspetto lassù stasera, così poi domani saliamo e ci togliamo il pensiero. Ricordati l’imbrago ed il cordino per il Passo dell’Artemisia. A dopo. Ciao”, quindi riattaccò immediatamente, senza attendere alcuna replica. Olga rimase immobile con il telefono in mano per alcuni istanti, sospesa tra il sorpreso e l’irritato. Come si permetteva Anna di decidere per entrambe, perché avrebbe dovuto accettare. Sentiva salire la collera per quella chiamata invadente e dittatoria, era furibonda. Poi però, dopo alcuni minuti, una voce nella sua mente cominciò a suggerire qualche altro tipo di sensazione. Un pensiero insistente si stava facendo largo, volendo sottolineare il fatto che se non avesse fatto Anna quel gesto, forse non sarebbero mai salite insieme su quella montagna. Ci vollero più di due ore, alla caparbia sorella, per decidere di preparare lo zaino e partire alla volta della Val Sesia. Olga abitava ancora nella casa paterna, che distava poco meno di due ore di macchina da Riva Valdobbia. Non aveva un marito, non un fidanzato o compagno e non aveva figli, per cui non fu difficile organizzarsi rapidamente per raggiungere in montagna la piccola, insolente, sorella. Nel tragitto in auto Olga cominciò, anche trascinata dalla musica di sottofondo, a ripensare alle escursioni che insieme avevano fatto, in un lontano passato, con la famiglia. Un senso di piacevole malinconia le pervase il cuore, constatando che seppure si trattava di una epoca finita e non più recuperabile, era stato un periodo della vita che aveva avuto la fortuna di vivere e che aveva la possibilità di ricordare. Passando davanti alla bottega di un incisore di Campertogno, ricordò due piccole statuette di legno a forma di camoscio, dono che il padre comprò loro, come premio per le salite più dure effettuate durante la vacanza ad Alagna. Ricordi appannati, sbiaditi, confusi a volte, che però erano lì, nell’armadio della sua memoria; come un maglione infeltrito che si sa di non poter più usare, ma che non si vuole buttare via per affetto. La donna arrivò alla frazione di S. Antonio, dove lasciò l’auto verso le tre del pomeriggio. Anna probabilmente era arrivata lassù utilizzando treno e pullman, che lei sapesse la sorella non aveva mai preso la patente. Infilati gli scarponi e lo zaino, cominciò il suo cammino sulla pianeggiante sterrata che costeggia il torrente Vogna. Dopo alcuni minuti, seguendo l’indicazione di un cartello del CAI, imboccò un sentiero che si snodava su pendii ripidi e frondosi. La mancanza di allenamento si fece ben presto sentire e l’andatura cominciò a calare. Quando finalmente si trovò in vista del rifugio, erano già passate le sei e mezza di sera e la luminosità si stava affievolendo rapidamente, anche perché il sole era sceso sotto il profilo degli altri monti circostanti. Ad una trentina di metri dalla porta del rifugio Abate Carestia Anna uscì, andandole incontro con una tazza di tè in mano e la porse generosamente alla sorella. La stanchezza fu l’unica barriera che poté bloccare le rimostranze di Olga, la quale riuscì solo a brontolare un fugace grazie. Una volta sistemate le proprie cose nel rifugio a dopo essersi rinfrescata un po’, Olga tornò nella sala, bar e ristorante, dove avrebbero cenato. L’imbarazzo era palpabile e le due cercavano di evitare lo sguardo reciproco e anche ogni sorta di dialogo. Purtroppo per loro arrivò l’ora di cenare e il gestore le mise su di un tavolo appartato, l’una di fronte all’altra. Tra le due donne sembrava esserci un muro invalicabile di silenzio, che nessuna delle due osava scalfire. Mangiarono come fossero due suore di clausura che onoravano il voto del silenzio. Olga si alzò dal tavolo e disse che si sarebbe messa a leggere un libro ma, prima di allontanarsi, disse alla sorella: “Come al solito, sei riuscita a fare ciò che volevi tu, come e quando hai deciso tu”. Anna, dispiaciuta del tono severo della sorella, rispose laconica e più dolce: “Tu l’avresti fatto il primo passo?”. La sorella non rispose, si allontanò e andò a sedersi su una panca vicino a una finestra, sfogliando una rivista alpinistica; anche se era più il tempo che fissava l’orizzonte oltre il vetro, piuttosto che quelle pagine vecchie e stropicciate. Anna si recò silenziosamente nella camerata per infilarsi nel sacco letto. Molto più tardi anche Olga andò a riposare. Entrambe dormirono ben poco quella notte, pensando e ripensando a tutto il proprio vissuto.
Quando Olga aprì gli occhi, sentì un brusio provenire dalla sala del ristorante. Lanciò una furtiva occhiata all’orologio e si accorse che erano già le sette passate. Tutte le brande nella camerata erano vuote, come anche quella di sua sorella, a castello sopra la sua. Quindi si alzò recandosi nella sala principale per fare colazione. Non era rimasta molta gente, alcuni chiacchieravano insieme ai gestori, che stavano facendo a loro volta colazione. Si sedette ad un tavolo da sola e subito giunse un giovane ragazzo dalla cucina, che gli portò una tovaglietta, un piattino, delle fette biscottate e della marmellata. La donna chiese se poteva avere del caffè latte e il ragazzo le indicò un termos, posto su di un tavolo poco distante, con a fianco delle tazze. Olga si alzò osservandosi intorno, la sorella non c’era, chissà dov’era finita. Conoscendola avrebbe potuto aspettarsi di trovare un biglietto con scritto che l’avrebbe attesa in cima al Corno Bianco. Preso il caffè latte, tornò a sedersi. Il ragazzo nel frattempo le aveva portato sul tavolo dei biscotti e del miele locale e la donna cominciò a mangiare. Se la prese comoda e, dopo aver terminato, andò nella camerata a risistemare lo zaino. Scoprì, una volta recatasi al bancone, che Anna aveva già saldato il conto per entrambe, così ringraziò educatamente e uscì dalla porta del locale. Una volta scesa dalla scalinata in pietra, perlustrò la zona con lo sguardo in cerca della sorella, che non trovò. “Come al solito fa di testa sua” pensò la donna incamminandosi sul sentiero verso il lago bianco. Dopo una decina di minuti di cammino, vide su di un masso liscio e ampio la sorella che prendeva il sole, attendendola. “Ben svegliata”, commentò ironicamente Anna. Olga fece un cenno di saluto con il capo e una smorfia di bonaria sopportazione del pessimo sarcasmo. Infilò lo zaino anche la sorella più giovane e, questa volta insieme, cominciarono a salire il versante che le avrebbe condotte al lago nero. Tra le due sorelle si manteneva un distacco costante di una decina di metri e spesso si fermavano a osservarsi, l’una all’insaputa dell’altra. Dal laghetto salirono a zig zag sulla pietraia, raggiungendo il passo dell’Artemisia. Anna lanciò un’occhiata preoccupata verso la sorella che disse: “vado prima io”. Vestirono l’imbragatura e il cordino con dissipatore senza dire nulla e, a debita distanza, ripresero a salire quel breve passaggio di roccia e catena. Quasi al termine di quel tratto, su una placca leggermente inclinata sul vuoto, Anna ebbe un tentennamento. La sorella se ne accorse e fulminea tornò indietro di qualche metro e le tese la mano. Incoraggiata da quel gesto, anche Anna riuscì a superare il leggero senso di vertigine e a uscire di nuovo sul sentiero camminabile. Anna fissò negli occhi la sorella e la ringraziò, mentre sul viso di Olga fiorì un improvviso sorriso, che immediatamente cercò di celare. Il sentiero riprese sinuoso fino alla parte di cresta finale. Lassù, ben abbarbicate alle pietre, raggiunsero la vetta senza troppi timori. Perlustrarono tutto intorno al breve spiazzo, dove vi è il paletto bianco per le misurazioni geofisiche, ma non vi era alcuna traccia della scatolina menzionata nel testamento. Forse era stato solo un pretesto del padre per farle fare una salita insieme, oppure qualcun altro aveva trovato e portato via quel tesoro nascosto. Rifiatarono alcuni minuti, osservando innocui ammassi nuvolosi salire dalla Val d’Otro e danzare, offuscando le pareti del Rosa alla loro vista. Decisero, un po’ deluse, che era giunto il tempo di scendere, anche se a mani vuote. Qualche metro sotto la vetta, a Olga balenò nella mente un ricordo, come un lampo. Una saetta che aveva illuminato per un istante una notte dipinta di china nera. La donna chiamò la sorella minore, qualche metro più sotto e, una volta che l’ebbe raggiunta, le disse: “ricordi che qui scivolasti sbucciandoti un ginocchio?”. Anna cominciò a frugare nei cassetti della propria memoria senza trovare alcun indizio. “Mah si dai” incalzò Olga, “avevamo più o meno dodici anni io e dieci tu e, scendendo da qui, eri scivolata graffiandoti un ginocchio. Mamma ti fece sedere su di una grossa pietra, che sembrava essere stata messa li apposta per effettuare medicazioni”. Anna proprio non ricordava. Olga cominciò a scrutare le rocce loro attorno, cercando di riconoscere quella pietra, fino a che non la trovò. Era solo tre o quattro metri più sotto. Scesero e si avvicinarono a quel masso liscio e piatto, che ora appariva decisamente più piccolo, di come la donna lo ricordava. Spostarono leggermente alcune pietre e scovarono, infilata in un pertugio, una piccola scatoletta di latta quadrata, larga una decina di centimetri. Anna la afferrò ed entrambe la osservarono per qualche istante, come se avessero un timore reverenziale ad aprirla. D’un tratto Anna la porse a Olga, facendole capire che toccava a lei l’onore di aprire quella custodia. La donna la prese tra le mani e la strinse, poi chiuse per un istante gli occhi e forzando il coperchio la aprì. Internamente il coperchio aveva una guarnizione e questo particolare rendeva la scatola impermeabile. All’interno c’erano due statuette, raffiguranti due piccoli camosci, ed una fotografia, un po’ datata, di loro quattro in cima al Corno Bianco. Sul retro della foto un commento scritto a mano dal padre diceva: salire su una vetta non ha senso… se non sai amare ciò che ti circonda.
Le due ragazze vennero letteralmente investite da una violenta folata di ricordi, che le abbandonò vacillanti in balìa di graffianti emozioni. Anna, dopo alcuni minuti, estrasse dallo zaino un piccolo pezzo di carta ed una penna, scrivendo su quel foglio: grazie Papà del tuo regalo, ti vogliamo bene. Prese una mollettina ferma capelli che portava in testa e la chiuse su un angolo di quel pezzo di carta. Olga capì e ne tolse una anche lei dalla sua chioma, porgendola alla sorella che fece la stessa cosa. Anna posò il frammento di carta con le due mollette per capelli nella piccola scatola e, una volta richiusa, la riposero nel posto dove l’avevano trovata.
Riguardo alla discesa c’è poco da dire, le due donne rimasero frastornate dai propri sentimenti per tutto il tempo e più che sul sentiero, camminarono su una strada di ricordi. Nel tardo pomeriggio di quella domenica, le due raggiunsero la macchina di Olga. La sorella maggiore invitò la minore ad accettare un passaggio con la sua auto, almeno fino alla stazione dei treni. Anna accettò.
Quando l’auto raggiunse il posteggio delle ferrovie, il silenzio nell’abitacolo era cambiato. Non era più imbarazzo, ma solo una voglia di dirsi tante cose, ma senza sapere da dove cominciare. Anna scese, recuperò lo zaino nel baule e al momento di congedarsi, porse una delle due statuette alla sorella. Prima che Olga potesse fare o dire qualcosa, Anna abbracciò affettuosamente la sorella, chiedendole scusa per averla lasciata sola durante tutti quei periodi difficili. Olga rimase impietrita, non se lo aspettava. Non sapeva più cosa fare o cosa dire. La giovane sorella alla fine, le porse la ritrovata foto di famiglia, dicendole: “Tienila tu, ne hai ancora bisogno. Io la mia cima interiore, l’ho già raggiunta”.
Dette quelle parole sorrise e si allontanò all’interno della stazione. Olga, vide sparire la figura della donna e capì in quel frangente che, ancora una volta, avrebbe dovuto raggiungere la sorella, che già la stava aspettando in vetta ad un’altra montagna.
Stefano Camòrs Guarda 2018
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