Diario di un uomo sospeso…
25 Dicembre 2015, troveranno molti regali ma forse hanno perduto
il valore delle cose.
Anche quest’anno, come è consuetudine nella razza dei coccodrilli, che prima s’abbuffano e poi lacrimano, anche la maggior parte delle persone del nostro paese si tufferà in un turbinio di lauti pasti per annegare nel cibo e nelle bevande le frustrazioni e i veleni che accompagnano il quotidiano per poi annidarsi su morbide poltrone a smaltire gli eccessi. Tante generazioni attorno ad un tavolo e tanti modi di pensare, plasmati dai tempi in cui ognuno è cresciuto.
Ecco i
nonni più attempati che mangiano come non ci fosse un domani, perché il ricordo
della fame dei giorni di guerra non li ha mai abbandonati. Li vedo osservare
leccornie in mostra sui piatti di portata e inumidirsi gli occhi, quasi li
abbracciasse il velo della memoria, quasi sopraggiungesse il timore che la
festa possa finire in un istante e di nuovo tornare i tempi magri, la miseria e
la fame. Di solito chi dice che si stava meglio quando si stava peggio, è
perché il peggio non l’ha mai vissuto. Chi ha patito c’è solo una cosa che di
sicuro non si augura più, patire nuovamente.
Ecco poi
il tavolo degli adulti. I figli di quei genitori memori o partecipi dei tempi
della guerra e della miseria, ma in fondo mai provata davvero. Solo sentita
nelle ramanzine e sventolata dai padri come monito. Per loro la tavola
imbandita è alquanto normale, è quasi tutta la vita che la tavola invita alla
festa. Solo da qualche anno cominciano a
rendersi conto del loro stato di privilegiati. Da qualche anno hanno lentamente
dovuto cedere frammenti di benessere, e a loro appare una tragedia, una perdita
incolmabile, quasi un delitto ai propri diritti. Anch’io sono di questa
generazione e ciò che mi turba di più è vedere che siamo una generazione
fragile, sia fisicamente che mentalmente. Abbiamo avuto davanti agli occhi
negli anni della crescita un esempio che oggi non esiste più, e non sappiamo
capacitarcene. Il mondo in cui hanno vissuto i nostri genitori ha toccato
l’apice verso la metà degli anni ottanta, ma ormai è bello che defunto. Era una
casa in bilico su fondamenta di sabbia, man mano che la si alzava, sotto il suo
stesso peso sprofondava. Ma gli uomini invece di compattare la zolla su cui
poggiava, ne aumentarono l’altezza. Un metro sprofondava, due metri la si
alzava, e così via. Poi è arrivato il punto in cui la velocità dello
sprofondare è stata più veloce della possibilità di alzarne la struttura, per
mille ragioni. E sono cominciati i guai. I primi costruttori erano morti o
troppo vecchi per ricominciare e la tecnologia aveva creato un mostro di nome
paradosso; avevamo mille persone in grado di progettare una nuova casa, ma
nessuno in grado di sopportare le fatiche per costruirla. Migliaia gli insegnanti ma nessun alunno. E’ il
tempo del caos, delle cose annebbiate e dei valori smarriti. Abbiamo la
possibilità di scegliere talmente tante strade, che è possibile passare tutta
una vita per sceglierne una senza mai percorrerne nessuna. Siamo diventati una
razza timorosa. Abbiamo talmente tante cose lasciateci in eredità da chi ci ha
preceduto, che la paura di perderle ci ancora, non ci permette più di
camminare. Mi auguro che non sia questa la nostra condanna, pentirsi, quando
sarà troppo tardi, di non averci neanche provato.
Poi ci
sono loro, i nostri figli. Oggi hanno trovato i regali sotto l’albero, senza
nemmeno accorgersi che è già un grande regalo averlo un albero di Natale.
Averlo poi in una casa calda e accogliente, senza il terrore di sentire
fischiare missili o granate per le strade, ma solo qualche petardo, è una
fortuna impagabile. Il regalo più grande che si possa desiderare è avere la
serenità, eppure, non per colpa loro, non se ne renderanno nemmeno conto. La
festa per i giocattoli ricevuti durerà al più qualche giorno e poi se ne
scorderanno e cominceranno a volere qualcos’altro, in un turbinio di desideri a
portata di mano e pochi sogni veri. Dovremmo insegnare loro che gioire di ciò che si
ha generà felicità, bramare sempre ciò che non si ha genera schiavi. Ho tra le
mani una vecchia foto in bianco e nero di mia madre con una bambola ricevuta il
giorno di Natale, in un tempo molto lontano. Un unico dono, un balocco
desiderato da chissà quanto tempo e maneggiato con cura, quasi fosse una
reliquia. Quella bambola è ancora lì, solo un po’ scolorita dai cinquanta e più
anni trascorsi. Intatta e ancora viva nel cuore di chi l’ha davvero desiderata,
come è ancorato profondamente nel suo cuore chi l’ha a lei regalata.
Le cosa
hanno il valore che noi diamo loro e le ultimissime generazioni rischiano di
non essere in grado di dare valore a niente, sia esso un gioco, il cibo o il nostro
pianeta. Aggrappati a una dimensione virtuale, di fuga da un mondo dove ad ogni
azione è normale aspettarsi una reazione, buona o cattiva, e non esiste un
tasto “reset” o “restart”.
Mi chiedo se sto
davvero facendoli diventare grandi, se stia facendo realmente il loro bene
oppure se sto solamente creandogli un’eterna fanciullezza, dove ci si rifugia
non per scelta, ma solo perché non si è più in grado di vivere una dimensione
propria, nel rischio di sbagliare o di provare e sopportare la frustrazione dei fallimenti. E’
un pensiero scomodo, un boccone amaro da digerire in questo banchetto Natalizio.
Ma il solo pensiero che un’eccessiva quantità d’amore possa tramutarsi in
possessione, in un vicolo cieco, dovrebbe almeno farci riflettere. Siamo nati
per essere liberi, come animali nella foresta. Non negli zoo, dove la luce
negli occhi delle fiere è tenue a malinconica. Forse è questa la sfida che
attende i genitori moderni, regalare del sano insuccesso e qualche costruttiva
privazione, per donare la possibilità alla nostra specie di dover rincorrere
qualcosa, di faticare e di sopravvivere al peggio, non solo quando questo
accade nella trama di un videogioco.
Se comparisse la scritta “game over” questa volta sarebbe per sempre.
Se comparisse la scritta “game over” questa volta sarebbe per sempre.
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