29 Novembre 2015, una domenica di sole finto
Le foglie sugli alberi sono cadute quasi tutte, le
spazzatrici comunali e gli addetti con i loro soffiatori le hanno fatte sparire
anche da terra, perché è diventato un problema sporcarsi le scarpe, non avere
un lindo manto d'asfalto sotto i piedi. Mi dicono che è pericoloso, perché poi
con l'abbassarsi delle temperature si rivelerebbero scivolose, soprattutto per
le persone anziane. Penso che sarebbe un rischio che le “persone anziane”
correrebbero volentieri, l'unica controindicazione potrebbe essere quella che
potrebbero ritrovare alcuni sentimenti felici della propria fanciullezza,
quando camminare strisciando i piedi fino a quasi ricoprire le gambe era un
gioco, e non certo un rischio. Allora forse a qualcuno verrebbe voglia di
camminare di più, e così facendo starebbe meglio, patirebbe meno gli acciacchi
e prenderebbe meno medicine. Ma così facendo qualcun altro ci guadagnerebbe un
po' meno. Allora non va bene, è rischioso. Già, ma mi chiedo per chi. Se poi
per caso un anziano si facesse aiutare da un nipote e magari nel tragitto
parlassero? Si confrontassero, si capissero. No, è rischioso. Meglio avere dei
marciapiedi lindi ma inutilizzati; poi magari il manto rovinato o dissestato
per l'utilizzo di materiale scadente. Lì il rischio non c'è, perché c'è un
contratto d'appalto al massimo ribasso, ci sono pastoie autorizzative e vincoli
sulla sicurezza, assicurazioni e coperture di rischio che tutelano l'ente ma che
paga chi inciampa in quei buchi. Lì il rischio non c'è, c'è solo un'equa
ripartizione di denaro.
Il cielo oggi è di una bella tonalità d'azzurro e
l'aria è fredda di un autunno durato un paio di giorni, tra un interminabile
estate e un inatteso inverno. Il fatto di essere fuori, all'aperto, è già un
toccasana al mio animo irrequieto e ingabbiato in questa città dorata, dove
tutto è a portata di mano, se si possiedono sufficienti averi. Passeggio
tranquillo affiancato da auto intelligenti ma guidate da autisti distratti,
ancorato a un macigno che mi pesa da tempo e che logora sonni e veglie: perché
sono ancora qui?
Le luminarie natalizie, ancora spente ma approntate,
disegnano freddi arzigogoli per addolcire glia animi. Quasi mai funzionano però,
perché anche quando sono illuminate è sufficiente che ad un semaforo non ci si
accorga dello scattare del verde per sentire un concerto in si bemolle di
clacson, e cori impettiti che intonano versi da battaglione alpino con
assonanze del tipo “vai a fare il mulo”
o “hai la testa del plotone”. Fatto salvo poi stringersi la mano e augurarsi
felicità nei due luoghi di culto della città: la chiesa e il centro
commerciale. Vedi alla televisione funeste immagini di territori devastati
dalla guerra e senti dire che sono arrivati i terroristi anche da noi, nel mondo civilizzato. Poi esci a fare due
passi e osservi due che si ammazzano di botte per un posteggio rubato. Già, noi
del mondo civilizzato non abbiamo il problema delle mine ma dei parcheggi. Ad
ogni passo che faccio chiedo a me stesso perché rimango, perché mi ostino a
vivere in un mondo che trovo insoddisfacente.
A dispetto di tante persone io non avrei alcuna pretesa, poche semplici
cose e un ritrovato contatto con un ritmo da una persona umana. Se continuiamo
così tra un po' di tempo vorremo l'inverno di notte, la primavera al mattino,
l'estate il pomeriggio e l'autunno la sera. Poco importa se poi la vita di
ognuno durerà sessanta o settanta giorni. Vogliamo sempre quello che non
abbiamo, dimenticandoci di godere di quello che abbiamo e che è tanto. Il
perché rimanere, purtroppo è facile da individuare, è malcelato anche
dall'inconscio, perché anche se non lo ammetterei mai, io sono parte di questo
presepe dove ci sono due pastori e tutti gli altri si credono re magi. Il cuore
ogni giorno ti tenta, soprattutto in giornate soleggiate come queste: “molla
tutto e va, ritirati in un paesino a vivere di agricoltura e libero dalle
catene dei tempi stabiliti”. La ragione un istante dopo risponde con autorità e
rabbia: “ma dove vuoi andare, qui hai le comodità, un lavoro che ti porta del
denaro e la tua famiglia che dipende completamente da te, sei matto?”.
L'inconscio appassisce come un fiore delicato posto in mezzo a due correnti
d'aria gelida. Allora sogno, sogno di poterlo fare, immagino di poter partire e
non tornare. Alimento i sogni di menzogne e mi fingo soddisfatto e contento, se
non per me, almeno per chi mi sta attorno. Ma quando vedo persone che hanno
fatto quel passo e nonostante le avversità appaiono serene, io le invidio.
Invidio il loro coraggio, la temerarietà e la ritrovata armonia. Sopravvivo
fuggendo, o sfuggendo la quotidianità. Mi regalo brevi momenti di vera libertà,
presi come una boccata d'ossigeno prima di una lunga apnea. Scappo sui monti e,
quando sono in vetta, osservo l'abisso e quella pianura lontana e avvolta da
una ripugnante nebbia giallastra, pensando che quella è la mia casa, la mia
tomba.
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