Diario di un uomo sospeso…
Artista nel suo studio- Rembrandt
12 Dicembre 2015, Vi auguro di avere ragione.
Le luci della sera sembrano accendersi al mio
passaggio. La macchina scivola silenziosa sulla liscia superficie della strada,
immersa in una densa nebbia. Da molto tempo non vedevo la stessa compattezza
del fantasma di vapore. La luce è filtrata e il bagliore dei lampioni
s’intensifica solo quando ci si è sotto; l’avvicinarsi delle cose è rilevato
solo all’ultimo istante, quando forse è ormai tardi. Questi attimi di guida mi
appaiono un po’come la metafora del periodo in cui vivo, siamo annebbiati,
immersi in soffocante vapore di azioni, informazioni, eventi, mutamenti,
opinioni, bandiere e correnti. Ormai con la tecnologia moderna ognuno può dire
o scrivere al mondo, chiunque può intensificare la densità di notizie,
alimentare la narcosi da accadimento. Riceviamo quotidianamente una tale
quantità d’input, che il nostro cervello per non cadere nel baratro della
follia da sovraccarico, deve obbligatoriamente filtrare, in una qualche maniera,
ciò che riceve in continuazione. Da un lato l’istinto potrebbe valutare la cosa
come una fortuna, un positivismo, come la risultante della reale libertà; ma in
questa infinita democrazia, ove si annida e confonde anche la menzogna, ruggisce
il plagio e la malevolenza, è certo che si possa nascondere più di un qualche subdolo
effetto collaterale. Innanzi tutto nella maggior parte delle occasioni non ci
viene nemmeno concesso il tempo per un approfondimento o per la creazione di un
pensiero personale: “Ecco a voi un bel
fatto, ma non sprecate del tempo prezioso a capire, vi diamo noi un’opinione
già pronta, ecco l’esperto. Voi non siete al corrente di ogni cosa, lui si, e
può regalarvi la verità; la sua verità. Non chiedetevi se l’esperto abbia
ragione o torto, è una ulteriore perdita di tempo, perché ecco, è già pronta
per voi un’altra notizia con un altro esperto e poi ancora un’altra e un’altra
ancora”. Bell’essere intelligente che sono, conosco l’esistenza di ogni argomento,
anche se in fondo non so veramente nulla di niente. E così, qualcuno cerca di
ribellarsi, s’informa, si applica, approfondisce e studia. Ma la vita ti permette
di farlo su pochi argomenti, perché non c’è il tempo per l’essenza di tutte le
cose. D'altronde sei stato addomesticato a dover lavorare molto, se hai la
fortuna di avere un lavoro, per ambire una vita migliore, agiata, ad una ceto
sociale più elevato. Se non lo hai, o ti annienti per cercarne uno o esci dal
mondo per la porta di servizio con pochi saluti e tanto veleno. Oppure, terza
opzione, ti disperi e manifesti, ma non in rappresentanza tua, ma come contorno
di una trasmissione televisiva o di una qualche bandiera politica o sindacale;
in maniera da infondere il terrore a chi un lavoro lo ha e a rammentargli
quanto sia fortunato e quanto debba lavorare sodo per poterselo tenere stretto.
Ma mi raccomando, l’importante è non usare mai la testa o usarla il meno
possibile, perché al giorno d’oggi, non ci sono quasi più risposte, ma solo
domande, moltitudini di domande. Le domande sono comode, possono essere fatte
da chiunque, ma le risposte no. Una risposta implica una responsabilità verso
chi ti ha fatto una domanda, prima ancora di preparazione sull’argomento. E’
intrinseco anche un rispetto reale di chi risponde nei confronti di chi ha
posto il quesito. Chi risponde sta già insegnando qualcosa a qualcun altro,
quindi dietro c’è dell’etica, della morale. Allora è meglio rispondere ad una
domanda con un’altra domanda, così inverto l’ordine delle responsabilità e me
ne lavo le mani. Oppure, ma ci vuole abilità, fornisco una non risposta,
ovvero, faccio uso dell’antica arte della dialettica per parlare all’infinito
non dicendo nulla. Infine, potrei addirittura arrampicare l’erto crinale del
gergo tecnico, usando parole riservate agli addetti ai lavori, in maniera da
risultare per lo più incomprensibile e quindi mettendo inevitabilmente
l’interlocutore su un piano che ne palesi l’inferiorità, che lo sminuisca, ma
soprattutto che lo scoraggi e cerchi di disincentivare l’ardimento nel porre
ulteriori e nuove domande. La maggior parte delle persone, soprattutto quelle
che si reputano più forti e preparate, cadono in questa trappola e pur di non
ammettere e rendere visibile la propria parziale ignoranza su un argomento, nel
senso più letterale della parola, fingono di comprendere e si fidano. Bisogna
rendersi conto che i burattinai sono molto pochi, le marionette molte.
Inorridisco nel rendermi conto di quanta disperazione provo anch’io nel
realizzare di essere burattino e non burattinaio, nella maggioranza delle
occasioni. Questa consapevolezza dovrebbe renderci diffidenti, agili e scaltri
in ogni istante della nostra vita. E’ una legge di sopravvivenza. Era così per
l’uomo primitivo perché non più per noi? Duemila anni fa i nostri avi
ammonivano: “Homo, homini lupus”, dunque lo sappiamo da sempre che siamo noi il
nostro stesso predatore.
In questi
venticinque minuti di tragitto ho già ascoltato tre giornali radio e svariati
spot pubblicitari che parevano più realistici del vero. Il mondo sta finendo
sotto il peso di una malattia chiamata economia, i paesi civili accusano gli
altri di inquinare troppo, i più arretrati rivendicano gli stessi diritti di
sfruttamento di cui fruirono i paesi che oggi si reputano civilizzati, e
parlano, scrivono, insegnano gli uni gli altri l’arte del temporeggiare e forse
a estinguersi insieme, senza aver compreso di chi era la ragione, perché una
propria ragione l’hanno tutti. Nulla cambia perché nessun individuo vuole
arretrare di un passo la propria condizione, ognuno accampa le proprie ragioni,
nessuno ha torto. Tra qualche decennio avremmo un pianeta con un genere umano
estinto solo perché ognuno aveva ragione.
Quello che
penso di me stesso è che per quanto possa pensare e studiare, non avrò mai la
piena padronanza e non potrò vantare ragioni, sino al giorno in cui ci sarà
qualcosa che dovrò ancora imparare e che potrà capovolgere le mie umane
convinzioni.
Ora, giunto finalmente a casa, davanti
all’ennesimo bombardamento di un nuovo telegiornale, penso a quello che
comincia a preoccuparmi davvero di più. Immagini di bambini morti e abbandonati
su di una spiaggia o in una città desertica rasa al suolo, scorrono mentre
provo un senso d’angoscia di appena qualche istante. Osservo epigrafi di uomini
che erano forti, o convinti della propria forza, che si uccidono perché hanno
scoperto un’imponderabile fragilità, nella perdita del lavoro, dei soldi, dei
diritti inalienabili; mi turbano, fino alla pausa pubblicitaria. Comincio a
provare orrore nell’assuefazione in cui la mia mente si sta rifugiando. Non
cerco e non voglio una via di fuga, una scappatoia o un’anestetica ragione cui
fare appello per giustificare il mio benessere, che affonda le radici nel
malessere altrui. Vorrei continuare a stare male, a indignarmi, a provare
rigetto e a cercare la dietrologia e le fondamenta dei problemi. Voglio
arrabbiarmi e impegnarmi se fatico ad arrivare all’essenza utilizzando la mia
logica e il mio limitato intelletto. Non voglio avere ragione sempre, ma voglio
chiedermi sempre se una ragione l’ho realmente oppure no. L’abitudine non può
essere la forza primaria di un’esistenza.
Vorrei osservare
il quadro di questa mia vita da un po’ più lontano, non solo all’ultimo istante
e ad un palmo dal mio naso. Ho la necessità di capire se ha un senso questo
insieme di colori, se la mia vita è un’opera d’arte o una crosta senza valore.
Se al di fuori della tela mi circonda la sala d’un museo o una buia, anonima e
fumosa parete di taverna, dove ognuno, intorpidito dai fumi dell’ebbrezza di
una finta logica, è convinto d’avere ragione e brinda da solo.
Nessun commento:
Posta un commento