martedì 13 dicembre 2016

L’uomo del giardino



L’uomo del giardino


Ricordo una giornata piovosa, in un fresco e umido autunno bustocco. L’aria intrisa d’odore di tiglio, sul viale Duca d’Aosta, desolava l’animo. Ultime foglie bagnate, variopinte, lottavano per guadagnare manciate d’istanti, lassù appese, all’illusione d’eternità. Giunto alla casa di riposo, poi, per ricambiare attenzioni al maestro d’una vita, insegnante elementare e anche mio parente, ad essere sincero, le cose non tradirono quell’atteggiamento apatico e stanco. Ci sedemmo ad un tavolo, dinanzi la finestra. La pioggia tamburellava un vetro consumato dal tempo, ma che conservava una dignità elogiabile, da veterano provato. Così appariva anche il mio interlocutore, il mio vecchio maestro elementare, che osservando ben oltre il panorama mi pose una domanda non facile. “Cosa ricorderai dei miei insegnamenti?”. Rimasi in silenzio per un lungo periodo, osservando la sofferenza dell’uomo che tira le somme della propria vita, poi risposi. “Ne stavamo parlando giusto qualche tempo fa, con alcuni ragazzi della tua vecchia classe zio; ormai siamo tutti adulti con figli che vanno loro volta a scuola. Tutti ricordano le originali passeggiate per le vie del centro che ci portavi a fare. Quella ricerca spasmodica per i dettagli artistici, verso cui sollecitavi la nostra attenzione. Ogni volta passavamo davanti all’Edicola di S. Carlo Borromeo, nella contrada Pessina, e alcuni metri prima ad un piccolo giardino, pulito e ordinato, con un uomo sempre al lavoro. Era l’unico individuo tra quelli incontrati cui rivolgevi un saluto diverso, sollevando leggermente il cappello in segno d’intesa. Ogni volta, quell’uomo era là, al lavoro. Ad ogni passeggiata, in ogni stagione, quel giardino appariva bello, ordinato e armonioso, sia esso in stato di fioritura o nel letargo invernale. A quel tempo faticavamo a capire zio, ma crescendo ne abbiamo compreso il senso. A dire la verità, credo anche di percepire una visione pedagogica celata e meravigliosa. Nel nostro peregrinare, ci hai mostrato le bellezze della nostra città più eclatanti, che appaiono palesi all’occhio in tutta la loro maestosità ed eleganza. Eppure non coglievamo l’insistenza di quel passare sempre davanti a quel nobile giardino e a quell’uomo instancabile, impegnato nel perpetrare del proprio operato. Ci hai mostrato, senza imposizioni, come fosse un’opera d’arte, la tenacia del lavoro nella sua costanza silenziosa. Una disciplina morale, che donava alla comunità un piacere gratuito e d’indiscutibile pregio; mai esaltato, mai decantato e purtroppo, mai ringraziato. Oggi quell’uomo non c’è più, il giardino è scomparso nel limbo dei ricordi di sparuti e attempati passanti”. Mio zio, il mio maestro elementare, sorseggiando un tè caldo abbozzò uno spicchio di sorriso. Conclusi con una frase che lo colse di sorpresa, non poteva aspettarsi fossimo arrivati a un livello così alto nella nostra analisi. “L’uomo del giardino non c’è più, ma noi abbiamo compreso di aver avuto un altro esempio simile. Un altro uomo, senza platealità, ha coltivato un particolare giardino per molti anni, con costanza e passione. Quel giardino eravamo noi, i tuoi alunni. L’uomo tenace ha lavorato sui nostri intelletti, con umiltà e devozione, nel rendere quell’acerbo vivaio di menti un bosco, una solida brughiera”. Sicuramente avevo colpito nel segno, perché mi congedai da lui osservando dei profondi occhi lucidi di commozione. Forse, ora riconosceva in me quella fragile talea, divenuta albero da frutto. Oggi il maestro non è più tra noi, altrove anime invisibili hanno reclamato l’aiuto della sua bravura e del suo amore. Davanti ad una foto ingiallita, d’una istituzione scolastica che non esiste più, non provo rimpianto. Ho potuto donare il conforto d’un ringraziamento all’artefice della nostra crescita e maturazione. Sono riuscito a ricambiare con una piccola parola il dono immenso che lui aveva fatto alla sua classe.

Stefano Camòrs Guarda

venerdì 9 dicembre 2016

La morte dell’ora blu


Un ripetersi d’istanti, costante come i giri del pianeta. Un tempo sospeso nella luce tenue e delicata dell’oblio. Sfumature innaturali donano alla volta riflessi madreperla, e l’occhio annega nel paesaggio senza voglia di reagire. Un sospiro d’abbandono e cedo all’infinito che diviene visibile, una terra di confine dove solo la sensibilità non è più apolide. Una voce interiore biascica una frase, della misera ragione estranea. S'inerpica come edera soffocante nella mente e agonizza l'animo negli ultimi spasmi di rigetto, paura d'ignoto.
Avverso corpo estraneo è questo palcoscenico, che insiste saldamente e mi strema verso una ricerca di liberazione da ciò che non è pensiero, da ciò che è umano. Non ho mani per scagliare con violenza rabbiosa la mia lancia d'ignoranza.
M'arrendo e abbandono, ma non t'assorbo, diffido, ti ricopro, rivesto, faccio mio in vestigia nuove. Senza pietà sei già nel mio animo annichilito e impasti di nuove forme le crete dei sentimenti.  Compensi le mie imperfezioni, le colmi e plasmi in sferica armonia. Un nuovo pensiero, screziato nei tuoi colori privi di confine: attingono vita e risplendono alla luce di nuova conoscenza che si perde sulle pareti del mio cuore e nell’oscurità dell’universo. Risalta dei tuoi toni il valore della vita e un vento freddo da Nord-Ovest porta un canto commosso: Sei preziosa esistenza, sei rara e unica, inaspettata e meravigliosa, rivestita del colore del cielo, in madreperla.
D’improvviso addirittura s'è placato il vento di Nord-Ovest che sibila, lacera, irrita l'umore.
Il buio è in cerca di pensieri che evaporano nell'insieme dei respiri, nel rintocco di sospiri. L'oscurità fagocita fantasmi di fiato e mi scopro di nuovo ad alzare il pesante tabarro di solitudine.
Appaio alle stelle come inutile sentinella, qui fuori di veglia e invidio le luci della valle; ad una ad una si spengono, affondano nella notte le assi seccate dal gelo, le piode, gli scuri sbarrati.
Dove siete ostili folate? Perché non tornate a tormentare il mio volto scatenando, per mio sollievo, l'adrenalina del fastidio? Non c'è portanza che regga ali nel tedio di un'inutile attesa, nemmeno il campanile della Chiesa Vecchia mostra voglia di sprecar voce, e s’adagia al ricordo immoto che la circonda.
Non ha senso abusare del tepore del focolare, il mio posto è qui, al domestico confino. Abbarbicato alle fronde del tiglio grande in attesa di echi celesti.  Quale battaglia ho combattuto? Esule e reduce insepolto del mio tempo, d'una guerra cui nessuno, ha coraggio dir ch'esista.  Virulenta inquietudine della mente che invidia la quiete ai sepolcri da folate lambiti; che l'anfratto sanguinante nel mio petto sia pertugio per quel vento? 
Allor m'illudo, sai, per un istante d'esser diverso da uomo, solo perché m'isolo coatto nell'antro delle mie paure, verso quelle quote severe, pulite. La notte della città è prostituta da maritare, in laidi andirivieni di false promesse. Non qui. La luna è sincera, il vento non s'ammansueta all'esibita arroganza. Sfibra le mie nervature e rinfaccia le mie intime vanità: sei uomo! Esisti per un istante e, avaro mentecatto, blasoni diritti non tuoi.
S’annida sul ramo lo sconforto della ragione che alimenta un filo di voce, un sussurro tagliente, immancabile lama d'ogni istante: guida, giudice, carnefice. Ignoro del vago argomentare quasi tutto tranne le parole sottili, garbate, esili persino, eppure ingabbiano comunque ogni mio istinto.
S'amalgama al sogno il desiderio dell'alba della realtà, sorretta e salda procederà forse la mia figura, avvolta in quel filo di voce.
In fondo era solo luce. Di che avrò mai sittanto cordoglio? In un attimo è accaduto, il sole è annegato nell'orizzonte aguzzo e luminoso; e non era più giorno, non ancora notte: solo luce.
Il cuore delle nubi pareva scuro, s'incendiarono effimeri i bordi e inebriato fiorì lo spirito: non astratto, non tangibile. Mi assentai, immersi nel puro pensiero e quiete fu, confine tra il sogno e la veglia. Persi la carne e mi unii al cielo, per un rapido istante dal valore di un'esistenza.
Ecco di cosa bramo il prolungarsi dell’esperienza. Per un attimo ancora vestire un drappo dell’abito di Dio: non più uomo, solo luce.  


Stefano Camòrs Guarda

sabato 26 novembre 2016

24 Novembre 2016, un viaggio condiviso


Il regalo più bello, più intenso ed indelebile. Vedere gli occhi di chi t'accompagna rapiti, interessati, fino alla commozione. I volti tesi nel non lasciar scappare le parole. Non è una presentazione, è pura condivisione. Vibrante, unica, indimenticabile. E' stato per me meraviglioso, come salire su una cima. 

Quando mi è stato chiesto di parlare dei sentimenti che la montagna trasmette, la prima cosa che mi è venuta in mente è quando raccontiamo ad un amico/collega che non frequenta la montagna delle nostre esperienze – mi sono svegliato alle tre del mattino, sono uscito che c’era un po’ di vento, saranno stati 15 sotto zero, e poi dopo uno slalom tra alcuni crepacci eccoci alla base della parete. Dopo quasi sei ore di salita eccoci in vetta, qualche istante e poi giù di nuovo verso la valle-. La risposta è, quasi sempre, la stessa: “ma chi te lo fa fare?”. Chi ce lo fa fare, bella domanda. Molti hanno tentato di rispondere, come per esempio Guido Rey, che disse: “la montagna è per tutti, per chi cerca il riposo nella quiete, come chi nella fatica ricerca un riposo ancora maggiore”, frase nota visto che tutti l’abbiamo all’interno della tessera del CAI. Frase vera, anche se non completa, perché non è solo il riposo che ricerca chi va sui monti. La frequentazione montana, l’escursionismo e l’alpinismo finiscono per diventare uno stile di vita, un modo di pensare, quasi una filosofia. A tal proposito il filosofo tedesco Nietzsche disse: “Filosofia è la libera scelta di vivere tra i ghiacci e le alte vette”.  Eccoci quindi al titolo della presentazione di stasera – Con la testa tra le nuvole- dove non vogliamo sottolineare il fatto di essere sbadati e distratti, ma frequentatori di una intima vetta, un personale luogo dell’anima dove ritrovare energie e motivazioni per proseguire la nostra ascesa.

1 - La montagna raccontata: Un richiamo misterioso
C’è una forza propulsiva che attira lo spirito a percorrere i sentieri prima ancora che le cime. Una voce ipnotica che chiama l’individuo e unisce la cordata, più forte della corda stessa. E capiamo che non siamo più noi a conquistare la montagna ma lei a conquistare noi. 

2- La montagna raccontata: s’apre il panorama, s’apre la mente
Ci sono parole e pensieri che in montagna manifestano il loro colore originale, amplificati nella nostra mente con intensità e a volte drammaticità, dal silenzio e dalla maestosità dell’ambiente. Amicizia, Amore, Armonia, Vita, Pace. Rifioriscono di significato come il crocus in alpeggio buca la neve in dissolvimento. 

3- La montagna raccontata: Intangibile stupore
C’è uno speciale dono che la montagna regala, ovvero l’infinita capacità di meravigliarsi. Scoprire l’inesauribile bellezza delle piccole cose, così come in quelle più maestose. Ritrovare con sorpresa il proprio cuore di fanciullo, dove in ogni momento regna l’entusiasmo e la gioia di vivere.

4- La montagna raccontata: Un sentimento profondo 
Una delle cose più straordinarie è l’irrilevanza delle distanze. Non solo quelle fisiche, geografiche, ma anche quelle temporali. Si annullano le differenze generazionali nella passione comune e si condividono i sentimenti più profondi. Scaliamo la roccia della storia, quella recente e quella più sbiadita e lontana. 

5- La montagna raccontata: Rispetto e gratitudine
E alla fine di tutto questo vagabondare, mentre svuotiamo lo zaino dagli indumenti ancora umidi, zuppi di ricordi, troviamo sul fondo della sacca che qualcosa lo abbiamo portato a casa: un grande rispetto e una sincera gratitudine. E non possiamo fare altro, nostro malgrado, che riprendere la nostra salita………. 



Grazie di cuore per le belle sensazioni che mi avete donato.

martedì 1 novembre 2016

Mountain Landscape and Waterfall, 1879

    Hermann Herzog (1832/1932)

Non posso non accogliere quel germoglio d'attenzione che fiorisce e annebbia la mente. Come l'aroma intenso e travolgente d'un glicine o d'un gelsomino in fiore, che innonda e stordisce i sensi. Così è quì tra i fili della tela, nell'apoteosi del colore, ma sopratutto nell'esaltazione delle ombre. L'estremo realismo che addirittura intimidisce nella trasmissione dell'irruenza della natura, della verità. Il dualismo esasperato dello spledndore dell'acqua in contrasto con l'oscurità della foresta, così come il cielo livido e tempestoso del primo piano e le schiarite d'azzurro all'orizzonte. Questo non è solo un paesaggio di montagna, è la vita, l'esistenza. L'acqua è il tempo, che passa, sgretola, modifica e plasma. Senza scrupolo alcuno, senza alcuna crudeltà. I colori determinano l'alternanza del dolore e della gioia, spumeggiante ed effimera. Se le rocce e le piante del primo piano appaiono aride e scheletriche, la vita compare negli esemplari di alce e osserva inerme, appena uscita dalle obliose ombre, un orizzonte di attesa speranza. Ed un altro breve colpo d'occhio ad un dipinto, diviene un viaggio nel profondo dell'animo umano e nel caos primordiale. Di una natura che segue priva di indugio le sue logiche di creazione e di mutamento, generando terrore e meraviglia. 

Stefano Camòrs Guarda   

domenica 30 ottobre 2016

Le due madri


... e mi trovi di fronte ad un'opera inaspettata, che toglie il fiato. Non conosco molto di tecnica pittorica o di storia dell'arte, se non qualche rudimento scolastico o qualche lettura peronale. Qui però mi soffermo per molto tempo, quasi ci fosse una forza misteriosa che mi cattura lo sguardo e alimenta un falò di pensieri. Il dipinto è  opera di Giovanni Segantini del 1889, ed ha titolo: Le due madri. Ripeto, non conosco nel dettaglio la corrente del divisionismo e nemmeno la stilistica del Segantini, eppure questo quadro è un vero sequestro della mente. Ogni pensiero vieni pilotato su alcuni concetti che emergono spontanei e sorgivi, come la semplicità del luogo dell'ambientazione. Una umile, spartana stalla. Semplicità che non è ostacolo alla potenza del messaggio, ovvero la similitudine tra essere umano e animale. Le due madri, una umana e una bovina, hanno le medesime fattezze di nobilità e dignità. Si percepisce la fatica, lo sfinimento della vita e della procreazione. In questo addirittura l'essere umano sembra avere qualche energia in meno rispetto all'animale. La donna cede al sonno, ma sempre mantenendo la postura più protettiva e sicura per il proprio figlio. Sembra rappresentare, con la metafora del sonno, la morte; ovvero il massimo senso di protezione di una madre per le proprie creature fino alla morte. Poi ancora, la bassa luminosità che genera un senso di intimità. Un profondo legame tra la l'uomo e la natura vissuto nell'ambito privato. Una condivisione della vita al pari livello di dignità. Un manifesto del rispetto. Quella lanterna nel centro, simbolo forse di una luce nell'anima che rende leggibile il dipinto e rischiara la tenebra della mente. Un faro al navigatore e osservatore, che osserva la rotta verso un ritorno ad un porto antico. Un dipinto con oltre un secolo di vita ma, mai come ora, moderno e ispiratore. 

Un artista delle montagne, della vita. Un pittore da valorizzare. 
La maestosità dell'esistenza, è una pennellata di colori ispirata dal cielo. 

Stefano Camòrs Guarda 

giovedì 27 ottobre 2016

Il crepuscolo dei ricordi


Anticipo qualche giorno l’assalto della moltitudine: un esercito armato di fiori e di ricordi. Un caotico raduno intarsiato dal sussurrante pregare di chi ha lasciti acerbi o solo di chi si consola, perché osservando la morte si compiace d’esser vivo.
Io sono qui per sentire di nuovo il calore della tua presenza, che silenziosa e accogliente, stemperava le mie quotidiane frivolezze in un rapido sguardo. Tu si che la sofferenza l’hai vissuta sulla pelle; tu come i molti della tua generazione. La tua leva mi ha insegnato che la tenacia e la fatica contorcono le fibre della vita, così come freddo e vento ritorcono il legno dei tronchi cresciuti nei luoghi di stento. Ma è l’esistenza sofferta che incornicia in maniera nobile l'essenza stessa della vita.
Dopo tanto tempo ancora mi ritrovo qui, immerso in questo crepuscolo di ricordi, dove ogni logica decade e ogni memoria diviene sfuocata e lontana. Eppure più passano folate d’autunno, più ogni schietta parola riemerge più intensa e significativa che mai. Ogni anno mi trovo a non capire se sia più doloroso l'istante in cui si scorgono inattese nuvole lontane e attendere il loro arrivo, oppure il contatto di una pioggia che ci bagna prima ancora di toccarci. Nella mia caustica e malinconica confusione capisco che, qui più che altrove, dopo una lunga assenza realizzo cos’è l'essere tornato a casa. Riconosco il senso della parole in sé: non mi servono pareti o casseforti per custodire le immortali vibrazioni trasmesse dall’affetto. Non cessano di emanare energia con il passare del tempo, perché quel seme non è stato piantato invano dietro una lastra di sasso, ma in un angolo recondito del mio animo; ora illuminato dai tenui bagliori della sera.
Mi sovviene il tuo volto, scavato di rughe come trincee sulla pelle, pertugi di chi la guerra l’ha vista davvero. Salda e ferma come i monti a me cari, rappresenti ancora i valori antichi dell’essere umano. Una mia personale montagna, che mi ha insegnato ad essere coraggioso ma non avventato, ad essere responsabile, onesto con me stesso e con gli altri. Crescendo avvolto nel valore della fiducia, dell'amicizia e dell'amore per la vita. Usando tanto la testa quanto il cuore per superare le difficoltà. Ho imparato a soffrire quanto a gioire, sempre nella crescita completa del mio animo. Ho frequentato un'accademia speciale, gratuita e libera da ogni condizionamento. Mi hai inculcato una cosa meravigliosa: il rispetto.
Il setaccio del tempo ha depurato ogni inutile velleità, cancellato quelle orrende venature d’orgoglio e oggi, se solo potessi ritrovarmi di nuovo davanti ai tuoi occhi, mi presenterei così: “Non chiedermi chi sono, ma chiedimi ciò che amo. Non avrai bisogno di porre ulteriori domande”. Avresti una carezza da donarmi, come sempre leggera, nel corridoio che porta alla stanza dei sogni.
Laggiù nella terra della memoria dove m’aggroviglio in un onirica ricerca. Vorrei recuperare tutti quei grazie mancati, per pigrizia o distrazione. Silenzi pesanti e che feriscono, ma che siamo in grado di percepire solo quando un’assenza si fa assordante e definitiva. E’ genuina stupidità, è l’umana leggerezza.
Sfioro la fredda lastra con la punta delle dita. Mi avvolge l’odore dolciastro del passato, l’aroma di cera che passavi sui mobili della camera da letto; perché ai tuoi tempi alle cose e alle persone ci si teneva, e allora ci si prendeva cura di esse. Si donava loro del tempo. Come hai fatto con me.

Io non porto fiori e me ne vado da questo freddo dormitorio non a mani vuote. Ogni volta rinfresco i colori di un quadro misterioso e privato, ravvivando le tinte sfumate nei bagliori del tramonto.  

Camòrs

domenica 23 ottobre 2016

Cammino sotto la pioggia


E’ come rifiatare. Un lampo di nitida lucidità. Mi sembra di poter riprendere fiato dopo una lunga apnea. E’ solo un cammino, un breve e lento movimento del mio corpo oppure c’è altro? La mia mente dov’è? dov’era prima di adesso? Mi sembra di non aver nessun ricordo, nessuna memoria. Sono solo su questo viale, e non è immaginazione, è davvero realtà.
Una fitta ma leggera pioggia mi tocca, mi bagna. Non c’è irruenza nel suo incedere, nel suo colpirmi, ma dolcezza e riserbo. In questo momento è come se il cielo mi stesse accarezzando il volto. Non provo ansia o timore, ma inaspettata consolazione.
Le foglie catturano ogni singolo frammento di colore, all’interno di questa grigia cornice autunnale. Tonalità intense e profonde trasmettono incomprensibili impulsi, al cuore e all’anima. Molte di quelle piccole variopinte tele sono ancora appese a scheletrici rami, molte altre sono già a terra, ma il loro pittorico linguaggio permane, più intenso che mai. Qui non pulisce nessuno, è un posto isolato, è solo una marginale zona industriale. Questa meraviglia d’artista è stata dunque una creazione dell’abbandono e dell’indifferenza. Un rettilineo cammino incastonato tra due lembi di arcana naturale pinacoteca: uno superiore e uno inferiore; quasi a ricordare al mio spirito che non c’è differenza tra cielo e terra se ciò che impariamo a considerare e quello che sta nel mezzo. Allora spero che la pioggia non cessi, ho bisogno di conforto, delle calde premure che l’inaspettato sa offrire. La semplicità della vita può accanirsi o lenire i nostri patimenti, soprattutto quelli mentali, ma non dobbiamo sforzarci nel comprenderla o nel voler decifrare quel codice: sarebbe pura follia. Bisogna attendere con pazienza e meraviglia quella lieve bruma che accarezza i tratti del nostro viso.
Occorrerebbe scegliere le domande giuste da porsi, così come si dovesse scegliere un abito o un paio di scarpe da indossare. Purtroppo non è così, e forse anche questo pensiero non è puramente veritiero ma contaminato d’umana paura. Come un vestito o una calzatura non pilotano il nostro modo di essere, di vivere, dovremmo imparare ad indossare i nostri pensieri senza che essi ci condizionino l’esistenza. La mente non può diventare un armadio di pensieri inutili. Quello di cui abbiamo necessità è molto meno di quello che pensiamo. Inoltre la saggezza ci suggerisce che non siamo propriamente quello che pensiamo, perché la mente genera ragionamenti condizionati dall’esperienza e viziati dall’esterno.
Mi svesto dai pensieri e cammino, nudo da essi, mano nella mano con me stesso. Allo stesso passo, alla stessa velocità; gioendo del gentile massaggio che la pioggia mi dona. Sono in pace con me stesso, con il mondo, con il tempo. Per poco forse, ma in maniera intensa come lo è la livrea del fogliame che sta depositandosi placida sul mio essere viaggiatore di terre sconosciute.  

Stefano Camòrs Guarda

martedì 11 ottobre 2016

Saggi, non facoltosi


Nelle case, nelle scuole, dovrebbero insegnare l'arte dell'accontentarsi. Non perchè ci sia bisogno di abituarsi agli stenti, ma per riscoprire le molteplici cose che già abbiamo. Tutti rincorrono ciò che non hanno e una volta raggiunto, cominciano a correre dietro a qualcosa d'altro dimenticando il resto.  Dovremmo imparare a riconoscere e godere del valore delle cose che già abbiamo ora e abbiamo sempre avuto, magari anche gratuitamente. 

Nessuna somma ci ripagherà mai dei raggi di sole non presi. Nessun oggetto potrà darci le stesse soddisfazioni che regala un abbraccio di puro affetto. 

Queste cose una volte erano gli anziani di casa, i nonni, a raccontarle: a spiegarle. Oggi quegli atavici bardi di vita sono esiliati e umiliati, come attempati e inutili rincitrulliti, ai quali defraudare parte della pensione. 

A volte la vera evoluzione di una razza e ripartire da un passo indietro e ricominciare da capo. Come le piante dovremmo lasciar morire il ramo malato e dare maggior sussitenza a quello sano. Stiamo perdendo anche quello, la memoria storica di una generazione che aveva poco, ma era grata di averlo. Non esite più quel tempo, così come a mio avviso, è morta l'era del consumismo; o rigeneriamo le menti o ci estinguiamo. 

Guardiamoci attorno, con occhi davvero aperti. Quante cose gratuite e  importanti ignoriamo quotidianamente. Dato che sono sempre lì, non diamo loro il giusto peso, il reale valore. Nella realtà se perdessimo quelle avremmo l'unica mancanza incolmabile. Il problema è che la gente comprende la verità sempre un istante troppo tardi, quando è già nella sofferenza. La sfida di questo momento storico non è quindi tanto arrivare alla vera consapevolezza, ma arrivarci in tempo utile alla sopravvivenza.  

L'esperienza è la capacità di uscire velocemente dalle situazioni pericolose. La saggezza è la capacità di operare in modo che le situazioni pericolose non si manifestino. 

Dobbiamo diventare saggi, non facoltosi. 




lunedì 10 ottobre 2016

Inspiration

When inspiration becomes Mountain,
the dreamer becomes a mountaineer


Stefano Camòrs Guarda 



domenica 9 ottobre 2016

Filosofia, è la libera scelta di vivere tra i ghiacci e le alte cime.


La Montagna si tramuta da esperienza fisica a mentale. Le immagini assorbite durante l'ascesa divengono improvvise folate di parole, rivoli di frasi, perenni accumuli di pagine. Nascono piccoli libri dal sapore alpestre ma che spaziano oltre....

...oltre l'orizzonte, oltre la volta, oltre l'umana comprensione. La passione si tramuta in forma mentis, in stile di vita, in propria personale catarsi...

...ecco che la dimensione fisica della montagna assume gli inquietanti toni della Montagna mistica, della scoperta del proprio limite intellettivo, del riavvicinarsi a colei che già mi aveva concesso la libertà: la morte. 

In un contesto concettualmente metafisico, giunto in maniera piuttosto inaspettata e irruenta, trovano nuovo senso le parole dei filosofi, che già da millenni teorizzano gli ideali epurativi dei monti. 

Ogni passo effettuato è divenuto insieme esperienza fisica e mentale. La Montagna svelatrice del percorso del divenire, culminante in una coscienza nuova, d’umiltà d’intelletto e di spirito; la consapevolezza del sapere di non sapere. 

La frequentazione della Montagna diviene così per me esperienza di filosofia, o meglio di cammino filosofico.

Impossibile riassumere questa idea meglio di come fece Nietschze: filosofia, è la libera scelta di vivere tra i ghiacci e le alte cime.

venerdì 7 ottobre 2016

Riflessi nel ghiaccio


La vita è come la salita di un monte,
non puoi sapere cosa ti attenderà dietro ad ogni spigolo.
Terrificante, meraviglioso.




A volte le pagine di un libro possono scorrere come le ore in una giornata autunnale. Le parole diventano ipnotiche, come le foglie che lievemente abbandonano il ramo sospinte da folate leggere. I loro colori intensi e variegati riempiono di magia il suolo, e così anche accumuli di frasi rivestono di meraviglia la mente. L'inaspettato è arcano e meraviglioso, genera sentimenti sconvolgenti e irrazionali: stupore, paura, felicità. Da un intreccio di emozioni personali è nato "Riflessi nel ghiaccio", una storia molto particolare, che parla di montagna (e che montagna), del sentimento paterno e di quello dei figli, di sogni, angoscie e riflessioni che ognuno affronta nel proprio quotidiano. Una ambientazione montana particolarmente avvolgente, a tratti esoterica nei contenuti, laddove il tangibile e l'intangibile si mescolano in un'amalgama in cui diviene difficile capire il confine dell'uno e dell'altro. Un viaggio profondo e delicato, che non può che far immedesimare e commuovere. Una scalata complicata e pericolosa quella della montagna più ardua: la vita. 

Come introduzione al mio ultimo lavoro, lascio la presentazione al poeta e amico Fabio Rossi, che nella sua prefazione al libro ha colto in maniera chiara, ironica e lucida il particolare equilibrio narrativo e gli spunti di riflessione che cercavo di trasmettere.

Stefano Camòrs Guarda

Prefazione

   Quando Stefano mi chiese di scrivere la prefazione del suo nuovo libro, ne fui ovviamente contento e orgoglioso ma, devo essere sincero, un velo di preoccupazione si insinuò nei miei pensieri. Le storie che scrive, infatti, prima ti incuriosiscono e appassionano con la loro scrittura fluida e lineare poi però, pagina dopo pagina, ti colpiscono violentemente quando meno te lo aspetti.
   I suoi libri sono spigolosi e imprevedibili come le rocce delle montagne che ama scalare, non sai mai cosa aspettarti; scivolare e cadere dietro ai suoi pensieri è facile tanto quanto mettere un piede sopra un masso sdrucciolevole.
Era con queste sensazioni che mi apprestavo a leggere “Riflessi nel ghiaccio”, convinto che per arrivare alla gioia della vetta – l’inaspettato finale – dovessi prima faticare su un ripido sentiero poco tracciato per poi inoltrarmi in un bosco di parole e idee incontaminate.
   Con l’incalzare del racconto, rimasi invece piacevolmente sorpreso dalla minuziosa descrizione delle cime intorno a Macugnaga e dalla ricerca di un mondo più a misura d’uomo, puro e vero come l’acqua gelida di montagna. Riflessioni come quelle sulla natura e sulla società contemporanea, caotica e sempre di corsa, non possono lasciarti indifferente: “La montagna mi ha insegnato che la vita è come il ripido crinale, non la scali ma la sali, così come la propria esistenza non si affronta, si vive… Quando capiremo ad un tratto, che il punto d’arrivo non è la meta prefissata, inizieremo a comprendere che l’essenza di un viaggio, è il viaggio stesso. Allora forse, smetteremo di correre e finalmente rallenteremo”
   Ma soprattutto mi sono intenerito leggendo le pagine che descrivono il legame tra padre e figlia, i veri protagonisti – insieme alla montagna – di questo libro; si percepisce il grande amore e lo spirito di protezione che un papà possa provare per i suoi figli:
“In un attimo capisco cosa vuol dire esserci, stare lì al momento giusto, quello del bisogno. Forse è proprio quello il senso nell’essere un padre presente. Affiancare senza invadere, sostenere se serve, con garbo e senza forzare…è stato sufficiente un semplice sorriso e la bufera si è trasformata per magia in gioco, in divertimento”
   E quando, ormai rilassato, credevo di essere arrivato illeso alla meta, ecco che tutto si capovolge... le sicurezze svaniscono repentinamente, cogliendoti ancora una volta alla sprovvista. Ecco stupirmi ancora di quella sua naturale capacità di mutare e sconvolgere la realtà, guardando il perimetro da un’angolazione sorprendente e mai convenzionale.
   Leggendo questo libro, non troverete risposte ma solo un velato interrogativo: quali sentieri bisogna intraprendere per arrivare al cospetto della nostra magnifica e silenziosa vetta?

                                                                                                 Fabio Rossi
  

sabato 24 settembre 2016

La stagione del freddo





Mi rispecchio in un cielo che lentamente si stringe, riduce le tinte di colore. Nell’ultimo spasmo rilancia le sfumature più forti, e riflette nel cielo il colore della sconfitta, del sangue. Il mio corpo è appassito come l’erba d’alpeggio, che dopo aver donato spore e sementi a un ventoso destino, avvizzisce su se stesso quasi implorando mietitura. Solo in quel modo avrà un’ultima utilità, chiuderà il cerchio della propria vita.

Rientro tra le mura di sasso, sull’alpe lenitrice la luce sbiadisce e trascina con sé le mie forze. Le membra pesanti d’antica stanchezza, un eccesso di stagioni forse immeritato, mi schiaccia alle beole del pavimento. Un lineamento di me compare danzante sulla parete di legno scuro, quell’ombra senza tempo che morirà senza colpa nel perir della fiamma. Solo il brillio delle braci rimane riflesso nelle pupille, come un orizzonte lontano. Il pensiero evapora e si perde nelle terre di confine, viaggia una terra sconosciuta, dove pochi frammenti di lucidità ritornano alla memoria in vestigia conosciute. La vita trascorsa diviene storia e il futuro non avrà un’alba, esiste un solo istante certo. Ho vestito l’abito del pessimismo e il mantello della malinconia, riflettendomi come il bosco d’autunno nelle acque scure del ruscello giù a valle, che il sentiero scavalca prima di varcare la curiosità dei paesani. Scorbutico, amaro e dolce. 
          
Il silenzio è mio compagno e amico, già, perché proprio da quest’assenza di suoni riaffiorano alla memoria i suoni del passato. Le voci acerbe dei miei figli, ormai rondini migrate. La gioia nelle risate, i rancorosi rimbrotti delle sconfitte alle carte, le urla biascicate dei numeri, lanciati a caso, nel gioco della morra. Anche quei timbri vocali, irruenti e grotteschi, sono svaniti senza alcun avviso. Li ho persi come si perde la brezza della sera dopo il tramonto. Come d’un tratto cambia la stagione e i grilli non friniscono più. Rimani li e il tempo si fa denso, riesci quasi a percepirlo, afferrarlo. Ma alla fine non vuoi e lo lasci andare, perché così dev’essere. Tutto è in equilibrio, anche se non riusciamo a comprenderlo.

Improvvisamente sento sul mio volto il lieve tocco di una carezza, chiudo gli occhi e mi abbandono al ricordo. Nessun timore e nessuna paura abitano il mio cuore, solo sollievo e voglia di aprire l’uscio e trovare l’erba rasa incrostata in arabeschi di brina. Attendere il mutamento del paesaggio nella speranza che tornino presto sorrisi e fiori selvatici.  

E verrà la stagione del freddo, del ricordo scolpito nella pietra. E saremo fantasmi di nebbia, vapori emersi da letti di muschio. Saremo liberi, saremo felici. Congeleremo nell’aria dei ghiacciai, arderemo nelle braci dei cuori, illuminando con gemme di luce, fuliginose pareti.


Stefano Camòrs Guarda

martedì 29 marzo 2016

Diario di un uomo sospeso…La resurrezione dell’anima.

Diario di un uomo sospeso…


28 Marzo 2016, La resurrezione dell’anima.

Da tempo bramava quel momento il Sospeso, da molto tempo. L’attimo in cui si posa la suola sul sentiero. Alle spalle si chiude una porta, ci si libera di un fardello; ammesso che lo si voglia lasciare a valle. Avesse potuto, il Sospeso non lo avrebbe solo abbandonato tra le rocce, ma lo avrebbe scaraventato giù, nella prima forra all’altezza del suo nome. Comunque era lì, finalmente tornato ai piedi di un monte innevato, circondato da fantasiose guglie che solo il caso può concepire e plasmare. Il destino delle cose, che come un anziano scultore dalle mani rugose, manipola lentamente le sostanze generando forme e materializzando idee. Nel muovere i primi passi, riscopre quasi un alone di tristezza per l’attesa finita, per l’abbandono di quella a speranza che tiene in tensione la vita. L’istinto è padrone e ordina sopravvivenza; oggi lo è salire su questa montagna per lingue di neve e abbandonare il proprio animo, scavare un buco nel ghiaccio e sotterrarlo; la montagna saprà cosa farne. Il sospeso percorre il serpeggiante sentiero mentre osserva la propria ombra distendersi tra la terra e i lunghi filamenti dell’erba secca ancora bruciata dal gelo e dalla neve, tra poco anch’essa risorgerà a nuova verde linfa e attirerà capre e camosci a lauti banchetti.  Dal fondovalle il lago riflette l’azzurro di un cielo generoso di purezza. Da qui l’azzurro è degno di questo nome, non come a casa; forse anche l’essere umano solo quassù è ancora degno di questo nome.
   La neve dei giorni passati si è trasformata in un meraviglioso materiale, differente dalla neve e differente dal ghiaccio; il Sospeso non sa se abbia un nome tecnico ma per lui è come la strada di mattonelle d’oro nel Mago di Oz, da seguire per compiere il viaggio rivelatore. I primi passi, sono l’apoteosi della felicità, ci si affida alla montagna, ai suoi drappeggi luccicanti, al suo volere. Umile sale, odorando l’aria fredda, ma intrisa del profumo di polvere di roccia e di avvinghiati ciuffi d’erba umida.  Un tappeto su cui salire, elevare il corpo, liberare la mente. Ogni tensione, ogni tristezza, ogni preoccupazione svanisce e non si capisce bene dove e quando sia stata perduta. La forza, l’energia della montagna sembra entrare nelle ossa, attraverso le piccozze e i ramponi raggiunge la pelle, il sangue, e quando poi arriva alla mente: l’estasi. Il Sospeso è parte della montagna, ospite educato e per questo accettato e coccolato dalla padrona di casa. Il Sospeso decide di modificare l’itinerario, di seguire una variante. Un’accennata lingua di neve tra rocce, un privilegio che intensifica la passione, l’intimità.


Nessuno in questi giorni era ancora passato di là, non v’è traccia alcuna. La pendenza si accentua, poi s’impenna e alla fine anche la neve s’aggrappa alla roccia verticale. Il Sospeso, ora, è realmente sospeso. Prima di effettuare un leggero traverso e portarsi su una forcella, arresta la progressione. Le punte dei ramponi lo sostengono e le picche sono ben salde a quel manto pensile, tutto ciò che lo circonda lo affascina, lo ammalia. Potesse pietrificarsi e diventare parte della montagna, forse lo farebbe, o forse sceglierebbe di divenire neve e sciogliendosi andar per cieli in attesa di nuove vette e cenge su cui adagiarsi. Evanescenti e fulminei, i sogni come gli istanti fuggono. Raggiunta la forcella, estrae la corda e con una calata di una dozzina di metri ritorna nel canale principale. La ripida via si stringe in un abbraccio di pareti strapiombanti e friabili, nessuna voce rimbalza al suo interno eppure al Sospeso pare di udire parole, suoni. Se sia il monte o la neve, il vento o la propria follia poco importa, è una lingua atavica che trasporta pace e forse una sensazione sconosciuta: felicità. Molti passi ancora, tanti sguardi meravigliati e grati, che bella che è questa montagna, com’è affascinante. E’ il pensiero fisso in tutte le volte che l’ha salita.
   Il canalone è terminato, il raggiungimento della cima è una bella camminata. In vetta a quest’altare, regalo del cielo, molte persone intorpidite dalla visone delle valli nebbiose lanciano pensieri nel vuoto, così come le briciole di pane alle gracule alpine. Il Sospeso non può che smarrirsi nell’incanto del momento. Inaspettata ricompare l’anima. Seppellita all’inizio del canale lo ha seguito sotto il ghiaccio, come il riflesso d’uno specchio, e ora torna, purificata e limpida, risorta a nuova luce. Il respiro si placa e rallenta il battito, la luce irraggia il viso disteso. Leggero, incorporeo, immateriale plana sulle bave di vento e gusta ciò che mai potrà portare via, che mai potrà raccontare appieno, che difficilmente saprà trasmettere con la reale potenza emotiva, e per questo ancor più prezioso e unico. Ognuna di quelle intense esperienze genera conoscenza e consapevolezza. Non siamo nulla di ciò che crediamo di essere e ci arrabattiamo per comprendere in che modo diventare ciò che non siamo. Per capire, alle volte, basterebbe saper ascoltare il vento.




lunedì 14 marzo 2016

Diario di un uomo sospeso…laggiù dove vive il passato.

Diario di un uomo sospeso…


13 Marzo 2016, Laggiù dove vive il passato.

Ieri era caldo, sembrava la primavera avesse spalancato la porta e fosse entrata a riempire le stanze del mondo. Oggi meno, fa più fresco. Anche il cielo è voltato ad un color grigio austero, brusco come una sgridata inattesa. Il Sospeso nei giorni passati ha toccato il fondo. Salutare per l’ultima volta chi rappresentava parte della propria infanzia, chi ricollegava il pensiero alla propria età della primavera è stato un peso non facilmente addossabile. Il Sospeso si ricordava di qualche anno prima, in quella stessa chiesa, in quello stesso vento freddo. Aveva osservato un uomo che aveva appena perso la moglie. Abbracciato e supportato dai propri figli, di lui ricordava lo sguardo. Quello sguardo di chi ha smarrito la rotta, che avrebbe voglia di lasciare la nave alla deriva, ma non può. Ha il dovere di lottare per il proprio equipaggio, perché dipendono da lui, perché gli vuole bene. Il Sospeso era appena diventato papà e colse appieno quei segni inaccessibili alla precedente giovinezza. Oggi l’equipaggio è forte e maturo grazie al suo esempio, e quasi con sollievo s’è abbandonato alle onde con la speranza di riabbracciare al più presto quella donna. “Perché in fondo se lo merita, di ritrovar l’affetto di chi lo ha tanto amato”. Il Sospeso è riconoscente a quell’uomo per l’esempio che gli ha involontariamente donato, che è stato marchiato nel suo animo nel momento in cui incrociò quello sguardo smarrito nel vuoto della sofferenza. E’ stato un grande onore conoscerlo, e una benedizione vedere di Te e tua moglie i segni del vostro animo germogliati nei vostri figli. Il Sospeso non può che rimanere turbato nei suoi interrogativi: “Sarò mai all’altezza di quell’esempio? Prigioniero, quale sono, delle mie incertezze e fragilità” .
   Sospeso nel proprio tempo, sospeso nel proprio mondo.
   Davvero non trova più alcun appiglio in questo modo di essere. Anche la finzione sta diventando un male incurabile, che giorno dopo giorno, trasforma un finto sorriso in una smorfia di dolore. Che lo consuma dall’interno, lo svuota e lo confonde. Al Sospeso viene da pensare a quanti veramente nel mondo stanno navigando seguendo una vera rotta, e quanti invece, come lui, stiano navigando e basta, senza una meta precisa. L’unica istruzione vincolante è l’incolumità della nave, dall’alba al tramonto.
    Si sta materializzando l’idea di andare a ritrovare l’essenza nella natura, in una terra che ancora oggi offre isolamento. Una terra dove ancora tutto è fatica, la maggior parte delle cose è addobbata da privazione. L’uomo vorrebbe mettersi in gioco, è in continua ricerca di risposte su quale possa essere la sua vera reazione ad un salto nel tempo di quasi centocinquant’anni. Di un ritorno alle origini moderne.  Sa bene di avere una visione troppo romantica di quella condizione, visione di chi non ha mai realmente provato i tribolamenti del passato. Eppure la voce dell’istinto porta a far emergere in continuazione la convinzione che ci sia qualcosa di inesorabilmente purificatorio e appagante, in un periodo depurativo in tal modo. La Val Grande è quella terra, luogo di sacrificio e consolazione per chi come lui è anelante d’isolamento. Un salto non solo nella distanza, ma anche nel tempo. Recarsi lassù solo con il proprio fardello di pensieri e un misero bagaglio, quello concesso per attrezzare un maggengo di fine Ottocento.
   Pieno distacco dal mondo e assoluta sopraffazione da parte del proprio essere. Da lì in poi il dubbio, il terrore reale è solo quello di sapere in anticipo se quella terra e quel tempo passato ci rigetteranno come organismi estranei, oppure, una volta iniettati in quel mondo arcaico sarà impossibile ritornare indietro. La terra abbandonata è il futuro dell’uomo; il suo rispetto, il suo utilizzo che ci ancora alla realtà. Non il virtuale. Non il nascondersi in un universo costruito a misura di benessere onirico e distaccato.
   C’è del rischio in questo, ma è la scelta fondamentale dinanzi ad un bivio; è la via che dobbiamo prendere per sapere a quale “etnia” apparteniamo. Esistiamo in un presente ambiguo, di confine. Dobbiamo capire da quale lato stare della rete.
   Anticamente la pangea ci faceva cittadini di un’unica terra, oggi la globalizzazione ha riunito quegli stati divisi dal movimento delle placche della crosta terrestre. Molti hanno già effettuato la scelta, forse il Sospeso è finalmente arrivato alla soglia di quel bivio tanto temuto e atteso.

lunedì 29 febbraio 2016

Diario di un uomo sospeso…Per quanto tempo riuscirò a tacere quel richiamo

Diario di un uomo sospeso…



29 Febbraio 2016, Per quanto tempo riuscirò a tacere quel richiamo….

Piove fuori dal vetro, gocce sottili ma fitte. Tutti contenti perché l’aria si è ripulita. Ma dove credono sia andata a finire tutta la sospensione di merda che aleggiava in quella cappa gialla e puzzolente dei giorni passati? Non vediamo al di là del nostro naso. Possibile che nessuno dica: ragazzi la pioggia sta facendo assorbire quello schifo che impregnava l’atmosfera al terreno, se abbiamo fortuna la filtra, altrimenti avremmo delle falde salubremente contaminate e berremo merda annegata nel cloro. Tanto l’acqua non è così importante, finche la troviamo al supermercato. L’acqua non è di moda, non è a rischio d’estinzione (quella potabile si). Il Sospeso vomita di continuo rigurgiti di orgoglio naturista, residuo bellico di quando lavorava nel verde. Non aveva molto, veniva snobbato, a volte deriso o compatito per le condizioni di lavoro, eppure la sera, dopo una doccia rigenerante era sereno. Caldo torrido d’estate e freddo gelido d’inverno, ma a quel tempo, mai malato e spesso contento.  Pochi soldi, poche pretese, era uguale a serenità. Aveva il giusto che gli serviva, nulla di più. Non ambiva a fronzoli, godeva dell’essenza delle cose perché le rispettava e abbinava loro un valore solo in natura della fatica spesa per ottenerle. Viveva il tempo delle stagioni. Si cibava della luce sempre diversa, ambiva le penombre mutanti alle inclinazioni del sole. Si meravigliava di come comparivano macchie di colore giorno dopo  giorno diverse, che rinnovavano il paesaggio ad ogni stagione. Oggi tutto appare sempre uguale, bagliori di luce fuori dal vetro cercano di richiamare l’istinto dell’uomo. Ormai viziato dal caldo soffocante nell’inverno e dal freddo sintetico nell’estate, fatica a reagire il corpo, anche se l’animo urla pietà della sua condizione umana.  Anche l’amico, eremita della Val Grande, lo ha lasciato per sempre. Colui che gli ricordava, con l’esempio, che l’umanità non è spacciata. Il Sospeso ha paura, ha il terrore folle di veder perire il suo istinto selvatico, quello che ad ogni respiro lo incita a ritornare a casa, alla natura. Sorride pensando alla fatica vera e alla soddisfazione nel vedere plasmato dalle sue mani del lavoro frugale e onesto, senza margine di sopruso e di spreco. Addirittura contribuiva a sviluppare il paesaggio. Altro che dileggio, quella era vera creatività, materializzarsi di fantasia e genio, nel rispetto delle leggi biologiche vegetali. Già, nel rispetto. La sofferenza e la tristezza, forse nascono proprio dall’aver ceduto alle lusinghe della comodità, credendo di vendere solo un poco di se stessi. Invece era il rinnegare totale di se stessi, del proprio modo di essere. Certo oggi è ancorato dalle responsabilità economiche necessarie per una famiglia, ma si sente in dovere di far crescere anche delle anime e delle coscienze. Con che genere di esempio?  Quello della perpetrante negazione delle proprie pulsioni per una misera certezza? Sarebbe come dire che il cacciatore è sfortunato perché non sa se prenderà una preda, mentre lo schiavo è fortunato perché, anche se misero, avrà un pasto al giorno. Se potesse ammetterlo senza ferire nessuno, direbbe che se fosse per lui, sarebbe meglio morire di stenti, ma sotto un cielo stellato. Chiudendo gli occhi dinanzi le stelle saprebbe di aver vissuto per davvero. Soffoca. Manca irrimediabilmente l’aria in quella scatola d’oro. I grandi dell’economia mondiale si stanno ritrovando per parlare di un problema ormai innegabile. Il cancro ha intaccato completamente il paziente che agonizzante sta morendo. Spegnendosi il paziente anche il cancro sta rallentando il suo sviluppo, il suo parassitismo cannibale. Preoccupatissimi, devono trovare stimoli e cure. Ma il dubbio è se lo facciano per salvare e guarire il paziente o per rimetterlo in sesto quel poco che basta affinché possa il cancro tornare a correre? Il Sospeso non lo sa più, ma è certo che se affidiamo il debellamento della malattia a chi attinge il proprio guadagno dalle cure necessarie per affrontare la malattia stessa, qualche dubbio appare lecito porselo (anche se si fa peccato, diceva uno…). Molto tempo fa avrebbe sussultato e ruggito come un leone davanti a questi argomenti. Oggi pateticamente gli si stringe il cuore e piange, per un mondo considerato solo come incubatrice per il proliferare di altre cose. I più scaltri e ricchi già fiutano l’idea di inocularsi su altri pianeti.  Chissà, si chiede con l’unica arma rimastagli, il sarcasmo, se la farmaceutica sarà la salvezza del genere umano. La speranza è che inventino una pastiglia, magari non blu, che aumenti la consapevolezza delle persone, la capacità di osservare da più punti di vista le cose. Così cominceranno a parlarsi, senza “like” o # davanti alle parole. Si guarderanno in faccia e si ricorderanno che il cielo azzurro è sorprendente, sia da un prato che da uno yacht di trenta metri; perché l’importante è il cielo, non da dove lo si osservi. Fondamentale e che possa vederlo io, ma uguale a me possano vederlo i miei figli e, a Dio piacendo, magari anche i miei nipoti. Forse uno scienziato pazzo genererà un essere umano in provetta, un OGM con il DNA dell’uomo onesto e giusto, che raggiunta l’età della ragione, nel dubbio se trucidare o perdonare tutto il resto dell’umanità, parlerà alle folle. E alcuni lo scotenneranno e altri lo adoreranno, e avremo un’ulteriore religione da difendere con le unghie e con i denti. Il Sospeso sa bene che sono pensieri figli di una fantascienza delirante, ma come il leone allo zoo, che non ha più luce di speranza negli occhi, e vede il ricordo della vera libertà svanire nel tempo, anche lui usa l’unica forza rimastagli per non soccombere all’apatia cronica. La sola essenza, cui non è ancora possibile imporre un argine: la fantasia. 

lunedì 22 febbraio 2016

Diario di un uomo sospeso…La cosa di più gran valore: il tempo.


Diario di un uomo sospeso…




21 Febbraio 2016, La cosa di più gran valore: il tempo.
 
Le giornate si stanno percettibilmente allungando. Camminando tra i viali s’incontrano profumi di fioriture invernali, essenze che ingannano la mente, rammentando miraggi di primavera. Intorno al Sospeso tutto corre, ogni movimento è un incalzare di velocità. Appare quasi che per ogni cosa, il valore non stia più nella qualità del modo in cui viene fatta, ma nella velocità in cui la si fa. Se poi è fatta male, beh, c’è il tempo per rifarla o per rimediare. Il tempo, già proprio lui, che invece ci ricorda in ogni istante che una cosa passata non torna più indietro. Crediamo di averlo rinchiuso negli orologi, di poterne disporre a dismisura, che sia lì, a nostro consumo e disposizione. Le cose che facciamo, soprattutto quelle immateriali, hanno come valore il tempo cui dedichiamo allo sviluppo di queste. Non possiamo pretendere perciò che una cosa cui abbiamo dedicato cinque minuti, risulti avere una valore maggiore di quello. Dove sta poi la poesia nella velocità? La poesia nelle cose è l’amore che ne ha impregnato l’ingegno nel pensarle e nei gesti che sono stati compiuti per plasmare il progetto, o l’oggetto. Nella velocità non c’è spazio per questo, non c’è spazio per la poesia.
   Cammina, il Sospeso, tra le vie del centro. Lentamente. Tutto intorno a lui è un brulicare, un rincorrere il tempo, per fare più cose…..oggi dieci, domani venti, poi trenta e via così, veloce, sempre più veloce. La gente fatica a guardarsi in faccia, non perché siano persone scorbutiche, ma perché se per sbaglio incrociano lo sguardo di qualcuno che conoscono, tocca poi fermarsi per un saluto e perdono del tempo. Automi consapevoli o no, in un circuito vizioso. Per poi lamentarsi di non avere mai tempo. Ormai è la routine è diventata come la corrente impetuosa di un fiume, è difficile uscirne, t’inghiotte se tenti un’inversione di marcia, ti annega.  Osserva un signore sui settant’anni, il Sospeso, seduto su una panchina. E’ invisibile a tutti, più invisibile della panchina stessa. Si guarda intorno, spaesato come uno straniero in un mondo nuovo. Fatica a comprendere ove sia stato negli ultimi vent’anni, per non essersi accorto di tutti questi cambiamenti che lo hanno isolato ed emarginato, come abbia fatto a distrarsi a tal punto da non accorgersi. Lui non ha due telefoni, non ha un auricolare nascosto e non va in giro parlando al vento con le sembianze d’un matto. Gli piacerebbe solo avere ancora una persona con cui fare due chiacchiere su quella panchina. Come quarant’anni prima quando uscito da messa, si fermava a parlare con gli amici. Alcuni saranno già morti, gli altri chissà. Forse ognuno di loro ha ereditato una panchina vuota, e ognuno aspetta gli altri, ma in posti differenti. Magari è vedovo e sta solo osservando con malinconia i luoghi dove incontrò la sua signora. Quello che desidera davvero non sono soldi o lussuosi suppellettili. No, vorrebbe solo avere del tempo da donare a chi non c’è più, per godere ancora della sua compagnia.  Avrà sprecato il suo tempo, o lo avrà usato bene? È una domanda cui il Sospeso non avrà una risposta. Come non avranno una risposta quegli interrogativi costanti: perché la gente brama ogni genere di cose ma non il tempo? Perché ognuno di noi pensa che sia un bene infinito? C’è chi si preoccupa che probabilmente tra cinquant’anni non ci sarà più petrolio, senza pensare che è invece sicuro, che non ci sarà più lui.
   Un paio di tiepidi raggi accarezzano la pelle del viso, un gioia delicata e improvvisa emerge lentamente da dentro. L’unico dubbio che viene al Sospeso è come sia una gran fregatura il fatto di non conoscere la data della propria morte. E’ come se una banca ti dicesse: “hai a disposizione una quantità di denaro, usala pure” (so che di questi tempi è un frase di pura fantascienza). Ma se non conosco qual è l’entità della cifra, come posso organizzare le spese e non trovarmi senza un soldo in un breve periodo. Così è per il tempo, se sapessimo quale fosse la data del nostro ultimo giorno, di certo non ci creeremmo ansie per accumulare ricchezze come se dovessimo campare per l’eternità. Faremmo il minimo necessario per goderci la vita e arrivare a quel giorno con il maggior numero di cose fatte e soprattutto godute. Perché il tempo è prezioso e non ne puoi comprare d’altro; quello hai e quello ti tieni. Niente appelli, niente ricorsi, niente tangenti e amicizie di comodo. Lo capirebbero tutti, anche se non fossero stati educati al consumo e alla produzione. La malattia più grave del mondo consumista di oggi è “l’economia”. Non si può pensare che la vita abbia un valore solo se si produce e se si consuma, altrimenti si è: un peso per la collettività. Certo non dico che tutti debbano divenire “cicale” e nessuno “formica”, basterebbe una via di mezzo… forse dei “grilli” o delle “cavallette”. Ma al giorno d’oggi, il problema non è forse che proprio le “cicale” si sono messe a governare le “formiche”?
   Il sospeso apre la porta di casa ed entra, oggi ha avuto per un istante il cuore più sereno. Nelle narici e nella mente regna ancora il profumo del Calicantus, le carezze del sole invernale e quella soddisfazione di aver usufruito del tempo a disposizione in maniera equivalente al suo valore. Molti nella stessa giornata avranno accumulato averi e l’ansioso pensiero di non perderli. “No, non è nelle mie corde” pensa il sospeso chiudendo la porta, “la vita non può essere quella schiavitù”.