lunedì 4 gennaio 2016

Diario di un uomo sospeso…Buon anno nuovo e buoni valori vecchi, anzi atavici.


Diario di un uomo sospeso…
















04 Gennaio 2016, Buon anno nuovo e buoni valori vecchi, anzi atavici.
 
   Dopo un anno ubriacante, avevo la necessità di depurarmi: dalla velocità, dagli impegni, dalle ansie dei risultati, insomma dallo stress. Mio rifugio preferito è la casa dei miei suoceri, situata in un paese del Trentino. Trentino si, ma assolutamente fuori dal tragicomico logorio che pregna i villeggianti presso le località più modaiole, e denso, ancora, di una dimensione rurale vera. Condizione amata e quasi sventolata come una bandiera della resistenza.
   Appena arrivato un amico, qui residente, mi fa una sorpresa chiedendomi se mi va di fare un’escursione su una cima arroccata al culmine di una valle selvaggia, e grazie a Dio non ancora abitata dall’uomo; la Val Marcia. Interessante camminata, che avevo già effettuato più di dieci anni fa, ma oggi con molta meno neve. Assai più pregevoli gli spunti emersi dalla nostra conversazione. Davanti a panorami noti e amati, ma sempre da scoprire osservandoli da più vicino, così è come per l’animo della gente. Scopro che anche qui, in questa landa dall’apparire tranquillo, il problema della carenza di lavoro sta segnando la società, però quello a cui non sono abituato è il vedere come risiede nell’animo delle persone il valore della comunità e della salvaguardia di essa.  E’ sicuramente una questione di educazione collettiva, ma anche di amore per la propria terra, lavorata e usufruita con l’intento primario di salvaguardarla dagli sfregi dell’economia moderna che accetta il guadagno a spese di ogni scempio e di ogni perdita definitiva. Mi regala un senso di benessere cogliere nelle parole dell’amico, come sia sufficiente per la gente di qui il raggiungimento delle necessità per vivere, in maniera dignitosa certo, ma non tendere verso un arricchimento fine a se stesso e chissà a quale scopo. Una volta guadagnato il giusto, bisogna vivere. E nella buona sintesi, il “vivere” quassù è inteso come il godere del patrimonio che il territorio dona, e se poi lo si fa in maniera comunitaria tanto meglio. Così si crea il senso di appartenenza, l’affetto alle proprie radici e a ciò che ci circonda.  Mi meraviglia ancora di più sentire che nel cosi detto “vivere” è incluso anche il concetto di dare il proprio tempo e la propria fatica, volontariamente e gratuitamente, per scopi collettivi. In montagna tutto è in salita e anche con le tecnologie moderne, è rimasta comunque una componente di fatica. Noto che molte attività, anche decisamente impegnative, sono gestite, sviluppate e costruite da ragazzi giovani, tra i venti e quarant’anni. In città quel poco di collettività gratuita è a carico di pensionati di buon cuore. Anche perché sono gli unici, al giorno d’oggi, salute permettendo, ad avere il tempo per potersi adoperare gratuitamente alla collettività garantendo un impegno costante nel tempo. L’amico subito m’incalza, “Qui i vèci i sé logora presto, alora el tòca ai bocia far de pù” qui gli anziani sono logorati dalla fatica, e allora tocca ai più giovani darsi da fare. 
   In città non ci si logora più, si deperisce solamente.
   Abbiamo così, gente attempata che non vuole lasciare il proprio posto per paura di questo deperimento o dell’abbandono e quindi godersi i frutti delle proprie attività, e giovani che non hanno la minima idea di quando saranno chiamati ad avere responsabilità da adulti.
   Quassù però, il prezzo della fatica, lo pagano tutti. Nessuno si tira indietro adducendo al fatto di essere troppo vecchio o troppo giovane. “No ghe né storie   Come diremmo noi di pianura “Sem nasù par patì, patém” siamo nati per patire, allora patiamo. Però non si deve pensare sia un patimento fine a se stesso, per il gusto di soffrire, ma quella fatica che ti fa apprezzare il tuo lavoro e di riflesso quello degli altri. Lo stato mentale che ti permette di rispettare ogni cosa perché è costata la fatica di qualcuno che l’ha fatta e che noi ben comprendiamo. Se fosse così, probabilmente non vedrei più gente buttare cartacce o altro per terra, sui marciapiedi, scrivere sui muri scaricare spazzatura nei rari boschi rimasti, ma magari dare una spazzata sul marciapiede davanti a casa o abbellire con un vaso di fiori una finestra. Così, senza uno scopo lucroso, solo per rendere più armonioso un habitat.
   Una volta non avevano bisogno di tante cose per sentirsi fortunati, noi ne abbiamo migliaia di più dei nostri antenati, eppure continuiamo a piangerci addosso la miseria. Avendo un po’ meno tutti, forse, staremo un po’ meglio, capendo di essere diventati dei ricettacoli di sole cose superflue. Dovrebbero fare dei corsi per farci provare a vivere con la metrica del Giusto: giusto tempo, giuste cose, giusti legami, giusto rispetto. Credo ci accorgeremmo di quanto siamo andati fuori binario e di quanto parassiti siamo diventati per questo nostro mondo. Il dramma per molti oggigiorno è che il collega ha la macchina nuova e noi no, che la vicina è andata in vacanza lontano, o che non posso permettermi un telefono che vale uno stipendio. Non siamo sognatori, ma schiavi dei nostri desideri. Una volta raggiunto un obiettivo, anche a costo di enormi sacrifici, quanto tempo passa prima che un nuovo subdolo oggetto diventi nuova fonte di desiderio, rimandando nell’ombra del suo reale valore la cosa raggiunta in precedenza?
   Raggiungiamo la cima del Dos de la Torta, a più di duemila e cento metri, osservando vette brulle come in agosto ma sempre meravigliose e ispiratrici. L’amico lascia a me il compito di scrivere un pensiero sul libro di vetta, ed ecco che l’infinito suggerisce, come ogni volta al mio cuore le giuste parole:
Da quassù s’ammira il candore. Se non v’è quel di neve, appare inatteso, quel dell’animi”
 L’ultima frase, mentre incalzava un ripido rientro, l’amico me l’ha detta in italiano e non in dialetto, quasi volesse sottolineare la sofferenza e il timore per i segni della terra in un cambiamento negativo, che qui, più che in altri luoghi (più artificiali) si osservano: “Stiamo rovinando tutto”.
   Quanti esseri umani sono esseri sospesi, e proprio a loro vorrei mandare lo stesso augurio che faccio a me stesso. L’auspicio di un buon anno nuovo, ma fatto di tanti e tanti pensieri vecchi, anzi vecchissimi. Un’atavica coscienza di ciò che vuol dire sopravvivere in maniera responsabile e compatibile, piuttosto che perpetrare con questa macabra eutanasia del pianeta.