giovedì 20 dicembre 2018

Il tempo fermo


Mi piace l’oscurità e il silenzio. So che per alcuni potrebbe apparire una frase indice di tristezza, ma per me non è così e non lo è mai stato. L’unica sensazione che provo è quella di una quiete profonda e rilassante, conciliante con l’impetuoso fluire dei miei pensieri. Ricordo di un luogo, una piccola cucina sempre con la stufa accesa. Mi piaceva sedere sulla cassapanca e osservare fuori, soprattutto nelle notti di luna piena, quando la si vestiva di ombre e i profili dei monti continuavano ad essere presenti nel mio orizzonte. La luce la tenevo spenta, il chiarore della luna era sufficientemente luminoso per blandire ogni angoscia recondita. I pensieri scorrono come bobine di film d’epoche passate, scene di muto assorbono il tempo. Il crepitio della legna che chiede spiegazione, brontola, emette sonorità imbarazzanti sprigionando gas di combustione. L’odore di fumo mi ricorda il sapore della polenta rustica, cucinata e menata là sopra per ore. L’occhio osserva fuori dal vetro e vede il lieve movimento di fronde: noce, acero campestre, qualche pino. La casa appare vuota, ma non lo è. Tutti nuotano nei propri sogni ad occhi chiusi, io ad occhi aperti nei miei e mi riposo ancora di più. Non trovo in questo mio fievole piacere nulla di malinconico o disperato. Anzi nella realtà, sto davvero provando la gratuità delle cose scrutate con cura. Le sfumature, il tepore, l’immortalità delle stelle e lo splendore delle mie miriadi di domande. Quando la tua mente si allarga all’infinito, come il cosmo, trovi la tua vera natura e porzione di esistenza. E’ solo una manciata di minuti, tra qualche sbadiglio vissuti, eppure cari e ricercati come i sorrisi della vita. 

venerdì 9 novembre 2018

Due briciole di pane



Doo fregoeuj de pan,
el breviàri desmentegà 
e un fiasc; voei.                                          
El Curà, finì che l’ha de disnà
l’è nda via, pien da spirit. 
Eh già, vucasiùn alcolica,
soo Eminenza. Avègh lù
sedù in cà, l’è l’orgoi
de familia e a messa la panca,
quela là inanz, l’è assicurada.  
L’è l’invidia de tuch
chi ch’inscì nel cùrtil,
di omen e di soo mié.
A mi me interessa pòc     
me stufi a sentì semper i stess ròb.
Dal Papa del prim bicér, ai comunisti
in giò là, sul fund dela butiglia.
L’è robe da grandi, pensi mi,
me disen che oramai
l’è tradisiùn. Sarà.
Senti un quei v’un,
che pian pian se moev,
po’dàs che sia il Don,
turnà ndré a ciapà il so ròb.                 
L’è invece un passeròtt,
piscinìn, saltèla sovr’al taul,    
de premura cata su un tuchél de pan
e po’via, su al cièl,
lì l’è sicur che sta bén.
U capì che in cà mia
se spreca minga gnent,
o forse, dumà i paròll
de noster Signùr. 

Camòrs 2018 

mercoledì 7 novembre 2018

Salire su una vetta non ha senso...



Lo studio, immerso nella penombra, profumava del legno con cui era stata costruita la boiserie che lo rivestiva interamente. File di tomi ornavano con i variegati colori del dorso gli scaffali, come strisce di un mosaico privo di senso. Il silenzio della stanza era avvolgente, sebbene l’atmosfera fosse percettibilmente tesa. Olga e Anna, due sorelle sulla trentina, sedevano sulle poltroncine davanti alla scrivania di noce intarsiato. Olga era la più grande, maggiore di due anni rispetto ad Anna, che in compenso era una decina di centimetri più alta. Dalla morte della madre, le due sorelle si erano allontanate definitivamente nonostante, in adolescenza, fossero state molto unite e orgogliose della loro complicità. Quando Susanna, la madre, le lasciò prematuramente le due ragazze avevano rispettivamente ventuno e diciannove anni. Entrambe rimasero drammaticamente sconvolte nel proprio dolore, anche se reagirono in maniera molto differente. Anna, la piccola, decise di lasciare quel luogo di brucianti ricordi andando a studiare all’estero e, sebbene sentisse telefonicamente il padre di frequente, raramente ritornava in quella casa, facendolo comunque con visite lampo di pochi minuti. Olga invece comprese che doveva rimanere e supportare il padre Giulio che, soprattutto all’inizio, appariva totalmente sopraffatto dalla profonda intensità di quel dolore. Nel tempo i rapporti tra le due sorelle si raffreddarono e, come ruggine sul ferro, cominciarono ad apparire macchie d’imbarazzo e piccoli rancori, resi più acuiti dalla lontananza. In quel tardo pomeriggio ventoso, di fine Maggio, erano di nuovo vicine, sedute nello studio notarile di un lontano parente, al quale era stato affidato dal padre il proprio testamento. Giulio era forse, finalmente, tornato ad abbracciare la moglie, ma le due sorelle dopo una decina d’anni apparivano, negli atteggiamenti e nei modi, come due perfette estranee. Il notaio entrò nella stanza e senza badare a convenevoli lesse lentamente, con distacco professionale gli articoli del codice. Interruppe quella noiosa cantilena solo quando dovette citare due righe, scritte di pugno dal defunto Giulio: “Ogni cosa che posseggo la lascio a voi, ma quella più preziosa l’ho riposta in un luogo particolare per me. Sulla cima del Corno Bianco, in Val Vogna. C’è nascosta tra le rocce una scatolina metallica, contenente la cosa più preziosa che abbia mai avuto. Ora è vostra anche quella, ma alla condizione che andiate a recuperarla insieme”. Le due donne non furono felici di quelle parole, non avevano più affiatamento e, tra le altre cose, Anna rispetto all’infanzia aveva cominciato a soffrire di vertigini. Giulio però conosceva bene le sue figliole e puntò su una caratteristica a lui ben nota: la loro innata curiosità.
Passarono alcuni giorni ed i tentennamenti delle due si alternavano a sprazzi di coraggio, ma nessuna di loro osava fare il primo passo per quel particolare riavvicinamento. Le perplessità facevano da inibitore ad ogni tentativo. La salita sarebbe stata abbastanza lunga e loro non erano più allenate come un tempo, il che voleva significare passare una notte insieme al rifugio Carestia. Il percorso lo rammentavano abbastanza bene, anni prima lo avevano già percorso e non ricordavano difficoltà alpinistiche elevatissime. Passò del tempo e anche quella curiosità iniziale sembrò affievolirsi, distratta dalla ruotine quotidiana; ma la brace rimane viva anche coperta dalla cenere e continua il suo lento lavoro. Verso la fine di giugno, un sabato mattina verso le dieci, il telefono di Olga squillò. Sullo schermo del telefono comparve un numero che non conosceva, così pensò scocciata al solito fastidioso operatore promozionale e non rispose. La chiamata terminò, ma pochi istanti dopo la suoneria ricominciò; era lo stesso numero. Olga questa volta rispose, già pronta a sfoderare gli artigli verso l’ostinazione arrogante di quell’interlocutore commerciale, ma rimase impietrita quando all’altro capo della comunicazione udì la voce della sorella Anna. Anna non le lasciò il tempo di pronunciare una sillaba ed espose a raffica:  “Olga sono qui a Riva Valdobbia, ho visto il meteo e le previsioni sono ottime. La cima del Corno Bianco sembra pulita e il Carestia apre per il fine settimana. Ti aspetto lassù stasera, così poi domani saliamo e ci togliamo il pensiero. Ricordati l’imbrago ed il cordino per il Passo dell’Artemisia. A dopo. Ciao”, quindi riattaccò immediatamente, senza attendere alcuna replica. Olga rimase immobile con il telefono in mano per alcuni istanti, sospesa tra il sorpreso e l’irritato. Come si permetteva Anna di decidere per entrambe, perché avrebbe dovuto accettare. Sentiva salire la collera per quella chiamata invadente e dittatoria, era furibonda. Poi però, dopo alcuni minuti, una voce nella sua mente cominciò a suggerire qualche altro tipo di sensazione. Un pensiero insistente si stava facendo largo, volendo sottolineare il fatto che se non avesse fatto Anna quel gesto, forse non sarebbero mai salite insieme su quella montagna. Ci vollero più di due ore, alla caparbia sorella, per decidere di preparare lo zaino e partire alla volta della Val Sesia. Olga abitava ancora nella casa paterna, che distava poco meno di due ore di macchina da Riva Valdobbia. Non aveva un marito, non un fidanzato o compagno e non aveva figli, per cui non fu difficile organizzarsi rapidamente per raggiungere in montagna la piccola, insolente, sorella. Nel tragitto in auto Olga cominciò, anche trascinata dalla musica di sottofondo, a ripensare alle escursioni che insieme avevano fatto, in un lontano passato, con la famiglia. Un senso di piacevole malinconia le pervase il cuore, constatando che seppure si trattava di una epoca finita e non più recuperabile, era stato un periodo della vita che aveva avuto la fortuna di vivere e che aveva la possibilità di ricordare. Passando davanti alla bottega di un incisore di Campertogno, ricordò due piccole statuette di legno a forma di camoscio, dono che il padre comprò loro, come premio per le salite più dure effettuate durante la vacanza ad Alagna. Ricordi appannati, sbiaditi, confusi a volte, che però erano lì, nell’armadio della sua memoria; come un maglione infeltrito che si sa di non poter più usare, ma che non si vuole buttare via per affetto. La donna arrivò alla frazione di S. Antonio, dove lasciò l’auto verso le tre del pomeriggio. Anna probabilmente era arrivata lassù utilizzando treno e pullman, che lei sapesse la sorella non aveva mai preso la patente. Infilati gli scarponi e lo zaino, cominciò il suo cammino sulla pianeggiante sterrata che costeggia il torrente Vogna. Dopo alcuni minuti, seguendo l’indicazione di un cartello del CAI, imboccò un sentiero che si snodava su pendii ripidi e frondosi. La mancanza di allenamento si fece ben presto sentire e l’andatura cominciò a calare. Quando finalmente si trovò in vista del rifugio, erano già passate le sei e mezza di sera e la luminosità si stava affievolendo rapidamente, anche perché il sole era sceso sotto il profilo degli altri monti circostanti. Ad una trentina di metri dalla porta del rifugio Abate Carestia Anna uscì, andandole incontro con una tazza di tè in mano e la porse generosamente alla sorella. La stanchezza fu l’unica barriera che poté bloccare le rimostranze di Olga, la quale riuscì solo a brontolare un fugace grazie. Una volta sistemate le proprie cose nel rifugio a dopo essersi rinfrescata un po’, Olga tornò nella sala, bar e ristorante, dove avrebbero cenato. L’imbarazzo era palpabile e le due cercavano di evitare lo sguardo reciproco e anche ogni sorta di dialogo. Purtroppo per loro arrivò l’ora di cenare e il gestore le mise su di un tavolo appartato, l’una di fronte all’altra. Tra le due donne sembrava esserci un muro invalicabile di silenzio, che nessuna delle due osava scalfire. Mangiarono come fossero due suore di clausura che onoravano il voto del silenzio. Olga si alzò dal tavolo e disse che si sarebbe messa a leggere un libro ma, prima di allontanarsi, disse alla sorella: “Come al solito, sei riuscita a fare ciò che volevi tu, come e quando hai deciso tu”. Anna, dispiaciuta del tono severo della sorella, rispose laconica e più dolce: “Tu l’avresti fatto il primo passo?”. La sorella non rispose, si allontanò e andò a sedersi su una panca vicino a una finestra, sfogliando una rivista alpinistica; anche se era più il tempo che fissava l’orizzonte oltre il vetro, piuttosto che quelle pagine vecchie e stropicciate. Anna si recò silenziosamente nella camerata per infilarsi nel sacco letto. Molto più tardi anche Olga andò a riposare. Entrambe dormirono ben poco quella notte, pensando e ripensando a tutto il proprio vissuto.
Quando Olga aprì gli occhi, sentì un brusio provenire dalla sala del ristorante. Lanciò una furtiva occhiata all’orologio e si accorse che erano già le sette passate. Tutte le brande nella camerata erano vuote, come anche quella di sua sorella, a castello sopra la sua. Quindi si alzò recandosi nella sala principale per fare colazione. Non era rimasta molta gente, alcuni chiacchieravano insieme ai gestori, che stavano facendo a loro volta colazione. Si sedette ad un tavolo da sola e subito giunse un giovane ragazzo dalla cucina, che gli portò una tovaglietta, un piattino, delle fette biscottate e della marmellata. La donna chiese se poteva avere del caffè latte e il ragazzo le indicò un termos, posto su di un tavolo poco distante, con a fianco delle tazze. Olga si alzò osservandosi intorno, la sorella non c’era, chissà dov’era finita. Conoscendola avrebbe potuto aspettarsi di trovare un biglietto con scritto che l’avrebbe attesa in cima al Corno Bianco. Preso il caffè latte, tornò a sedersi. Il ragazzo nel frattempo le aveva portato sul tavolo dei biscotti e del miele locale e la donna cominciò a mangiare. Se la prese comoda e, dopo aver terminato, andò nella camerata a risistemare lo zaino. Scoprì, una volta recatasi al bancone, che Anna aveva già saldato il conto per entrambe, così ringraziò educatamente e uscì dalla porta del locale. Una volta scesa dalla scalinata in pietra, perlustrò la zona con lo sguardo in cerca della sorella, che non trovò. “Come al solito fa di testa sua” pensò la donna incamminandosi sul sentiero verso il lago bianco. Dopo una decina di minuti di cammino, vide su di un masso liscio e ampio la sorella che prendeva il sole, attendendola. “Ben svegliata”, commentò ironicamente Anna. Olga fece un cenno di saluto con il capo e una smorfia di bonaria sopportazione del pessimo sarcasmo. Infilò lo zaino anche la sorella più giovane e, questa volta insieme, cominciarono a salire il versante che le avrebbe condotte al lago nero. Tra le due sorelle si manteneva un distacco costante di una decina di metri e spesso si fermavano a osservarsi, l’una all’insaputa dell’altra. Dal laghetto salirono a zig zag sulla pietraia, raggiungendo il passo dell’Artemisia. Anna lanciò un’occhiata preoccupata verso la sorella che disse: “vado prima io”. Vestirono l’imbragatura e il cordino con dissipatore senza dire nulla e, a debita distanza, ripresero a salire quel breve passaggio di roccia e catena. Quasi al termine di quel tratto, su una placca leggermente inclinata sul vuoto, Anna ebbe un tentennamento. La sorella se ne accorse e fulminea tornò indietro di qualche metro e le tese la mano. Incoraggiata da quel gesto, anche Anna riuscì a superare il leggero senso di vertigine e a uscire di nuovo sul sentiero camminabile. Anna fissò negli occhi la sorella e la ringraziò, mentre sul viso di Olga fiorì un improvviso sorriso, che immediatamente cercò di celare. Il sentiero riprese sinuoso fino alla parte di cresta finale. Lassù, ben abbarbicate alle pietre, raggiunsero la vetta senza troppi timori. Perlustrarono tutto intorno al breve spiazzo, dove vi è il paletto bianco per le misurazioni geofisiche, ma non vi era alcuna traccia della scatolina menzionata nel testamento. Forse era stato solo un pretesto del padre per farle fare una salita insieme, oppure qualcun altro aveva trovato e portato via quel tesoro nascosto. Rifiatarono alcuni minuti, osservando innocui ammassi nuvolosi salire dalla Val d’Otro e danzare, offuscando le pareti del Rosa alla loro vista. Decisero, un po’ deluse, che era giunto il tempo di scendere, anche se a mani vuote. Qualche metro sotto la vetta, a Olga balenò nella mente un ricordo, come un lampo. Una saetta che aveva illuminato per un istante una notte dipinta di china nera. La donna chiamò la sorella minore, qualche metro più sotto e, una volta che l’ebbe raggiunta, le disse: “ricordi che qui scivolasti sbucciandoti un ginocchio?”. Anna cominciò a frugare nei cassetti della propria memoria senza trovare alcun indizio. “Mah si dai” incalzò Olga, “avevamo più o meno dodici anni io e dieci tu e, scendendo da qui, eri scivolata graffiandoti un ginocchio. Mamma ti fece sedere su di una grossa pietra, che sembrava essere stata messa li apposta per effettuare medicazioni”. Anna proprio non ricordava. Olga cominciò a scrutare le rocce loro attorno, cercando di riconoscere quella pietra, fino a che non la trovò. Era solo tre o quattro metri più sotto. Scesero e si avvicinarono a quel masso liscio e piatto, che ora appariva decisamente più piccolo, di come la donna lo ricordava. Spostarono leggermente alcune pietre e scovarono, infilata in un pertugio, una piccola scatoletta di latta quadrata, larga una decina di centimetri. Anna la afferrò ed entrambe la osservarono per qualche istante, come se avessero un timore reverenziale ad aprirla. D’un tratto Anna la porse a Olga, facendole capire che toccava a lei l’onore di aprire quella custodia. La donna la prese tra le mani e la strinse, poi chiuse per un istante gli occhi e forzando il coperchio la aprì. Internamente il coperchio aveva una guarnizione e questo particolare rendeva la scatola impermeabile. All’interno c’erano due statuette, raffiguranti due piccoli camosci, ed una fotografia, un po’ datata, di loro quattro in cima al Corno Bianco. Sul retro della foto un commento scritto a mano dal padre diceva: salire su una vetta non ha senso… se non sai amare ciò che ti circonda.  
Le due ragazze vennero letteralmente investite da una violenta folata di ricordi, che le abbandonò vacillanti in balìa di graffianti emozioni. Anna, dopo alcuni minuti, estrasse dallo zaino un piccolo pezzo di carta ed una penna, scrivendo su quel foglio: grazie Papà del tuo regalo, ti vogliamo bene. Prese una mollettina ferma capelli che portava in testa e la chiuse su un angolo di quel pezzo di carta. Olga capì e ne tolse una anche lei dalla sua chioma, porgendola alla sorella che fece la stessa cosa. Anna posò il frammento di carta con le due mollette per capelli nella piccola scatola e, una volta richiusa, la riposero nel posto dove l’avevano trovata.
Riguardo alla discesa c’è poco da dire, le due donne rimasero frastornate dai propri sentimenti per tutto il tempo e più che sul sentiero, camminarono su una strada di ricordi. Nel tardo pomeriggio di quella domenica, le due raggiunsero la macchina di Olga. La sorella maggiore invitò la minore ad accettare un passaggio con la sua auto, almeno fino alla stazione dei treni.  Anna accettò.
Quando l’auto raggiunse il posteggio delle ferrovie, il silenzio nell’abitacolo era cambiato. Non era più imbarazzo, ma solo una voglia di dirsi tante cose, ma senza sapere da dove cominciare. Anna scese, recuperò lo zaino nel baule e al momento di congedarsi, porse una delle due statuette alla sorella. Prima che Olga potesse fare o dire qualcosa, Anna abbracciò affettuosamente la sorella, chiedendole scusa per averla lasciata sola durante tutti quei periodi difficili. Olga rimase impietrita, non se lo aspettava. Non sapeva più cosa fare o cosa dire. La giovane sorella alla fine, le porse la ritrovata foto di famiglia, dicendole: “Tienila tu, ne hai ancora bisogno. Io la mia cima interiore, l’ho già raggiunta”.
Dette quelle parole sorrise e si allontanò all’interno della stazione. Olga, vide sparire la figura della donna e capì in quel frangente che, ancora una volta, avrebbe dovuto raggiungere la sorella, che già la stava aspettando in vetta ad un’altra montagna.

Stefano Camòrs Guarda  2018

domenica 4 novembre 2018

In medio veritas



I.        PREMESSA

Per quanto il malcontento sia una costante della popolazione italiana, ad un occhio esterno è indubbiamente evidente come la situazione nel nostro paese nella realtà dei fatti non sia drammatica, ma solamente disequilibrata. Molti si nascondono sotto il vessillo della meritocrazia senza che poi però, allo stato dei fatti, nessuno abbia più voglia di fare la cosi detta “gavetta”.  L’Italia, nonostante il sentore crescente antieuropeista, sbaglia a pensare di ottenere dei vantaggi da un’uscita dall’euro. Gli unici ad avere un tornaconto sarebbero gli speculatori sui tassi di cambio e sulle oscillazione del tasso d’interesse sul debito nazionale. Certo ci sono Stati più evoluti ma anche con una cultura collettiva più accentuata della nostra e ci sono Stati decisamente più in difficoltà del nostro. E’ una questione, non solo, ma anche psicologica, di percezione. Ogni cosa che riteniamo oggettiva è vista con un’ottica soggettiva, quindi, se mi convinco di essere povero, anche quando non lo sono, avrò la stessa percezione di difficoltà che ha una persona che lo è realmente. Quello che avremmo urgentemente bisogno, è aumentare la percezione del benessere e al contempo aumentare la percezione degli altri Stati d’Europa che stiamo seguendo la corrente Europea. Le cose indubbiamente devono cambiare in qualche maniera, ma la soluzione che tutti cercano è la così detta “bacchetta magica”, ovvero una legge che nel giro di una notte riequilibri e risani il paese. Bene una cosa del genere, non esiste. Lo Stato è come un organismo vivente e quando si ammala in maniera cronica il medico non può guarirlo con una terapia shock. La cronicità va eliminata con cautela per non generare scompensi in altri punti e rendere vani i miglioramenti.


II.             I CONSUMI E L’IMMAGINARIO COLLETTIVO

Nonostante l’economia cerchi in ogni modo di favorire il consumo, perché è ovvio che l’utilizzo genera domanda, la domanda genera l’offerta e l’offerta genera lavoro. Il problema è la natura psicologica della volontà di utilizzare. Erroneamente si tende sempre a considerare gli Stati Uniti come esempio a cui trarre ispirazione, ma il divario tra il Popolo italiano e quello statunitense è di natura culturale. L’Americano medio ha un retaggio culturale che non lo ha mai visto alla fame dal ’29 in poi. Le guerre sono sempre state combattute lontano da casa (ad eccezione degli attacchi di natura terroristica), mentre nella maggior parte delle famiglie del Bel Paese, l’impronta e il timore trasmesso dai nonni o dai genitori era la propensione al risparmio, all’accantonamento nell’eventualità di una crisi o guerra. Anche questo aspetto non è da sottovalutare, un Italiano difficilmente utilizzerà al 100% il suo guadagno nel consumo diretto di beni.


III.           INCENTIVARE E RASSICURARE

E’ dunque in questo scenario, complicato dalle interrelazione dell’appartenenza all’Unione Europea e ai flussi delle varie sfaccettature finanziarie, che si deve necessariamente trovare quell’equilibrio primario che in medicina è conosciuto come “Primum non nŏcēre”. Quindi è vero che occorre dare un impulso, soprattutto all’economia interna, ma è anche necessario continuare a garantire quella fiducia e affidabilità rispetto agli impegni presi in maniera tale che si evitino emorragie speculative.



IV.          E’ LA DOSE CHE FA IL VELENO

Il concetto è più facile di quanto si possa pensare, pensiamo al fuoco, ad esempio. Utilissimo e anche pericoloso, esattamente come l’economia. Perché possa esistere il fuoco però, debbono coesistere almeno tre elementi: Combustibile (es Carta), Comburente (es. Ossigeno) e Temperatura d’Accensione (Calore). Se manca uno dei tre la combustione diventa pressoché inattivabile. Trasliamo questo esempio sulla vita reale, per poter attivare un qualsiasi tipo di economia devono coesistere almeno tre fattori: Merci o Servizi (tutto ciò che è legalmente vendibile), Fiducia nel futuro (tranquillità e percezione di una comunità che è stabile), Disponibilità (di denaro, dei mezzi per ottenerlo e anche del tempo per poterlo utilizzare). Senza uno di questi tre elementi, difficilmente può divampare un qualsiasi stimolo che non sia di arroccaggio su posizioni protezioniste.
Spiegarlo è facile, metterlo in pratica meno. Ogni decisione deve avere sempre presenti i tre elementi altrimenti c’è il rischio che non si ottenga nulla, o peggio, si ottenga l’esatto contrario.
Andiamo per gradi, il primo elemento che ho elencato è “Merci e Servizi”. E’ importante mantenere una concorrenza tra le aziende, un giusto livello di competitività ed anche una valorizzazione della creazione di merci. L’Italia non è solo inserita nell’Europa (è una visione limitata), L’Italia è all’interno del mondo e deve considerare tutti i confronti e le sfide. Nessuno nelle varie campagne propagandistiche ha mai espresso i metodi per richiamare i capitali del mondo verso il nostro paese. Le ipotesi sono tante e svariate, quelle forse più intelligenti potrebbero essere una detassazione totale delle pensioni dei cittadini esteri che scelgono di venire a risiedere in Italia (come già il Portogallo fa), questo incrementerebbe i consumi e quindi l’apporto dell’IVA allo Stato, aumenterebbe i volumi di lavoro richiesto e aumenterebbe quella valorizzazione dell’unico Petrolio che l’Italia ha e che sfrutta meno di quel che dovrebbe: la cultura e il turismo.
Il secondo punto potrebbe essere una tassazione annullata e/o ridotta ai minimi termini, per tutte quelle società che operano in Italia nella ricerca e sviluppo, però queste società per avere accesso a questa tassazione agevolata devono essere situate in Italia e registrare tutti i brevetti sul territorio Italiano e firmare accordi obbligatori per la produzione dei prodotti sotto quei brevetti, per un periodo di almeno cinque anni, con ditte che producano sul territorio italiano. Queste realtà produttive collegate potrebbero ottenere sgravi fiscali per la produzione sotto tali accordi e godere di un periodo di monopolio del prodotto innovativo.      
Il secondo parametro è quello della “Fiducia nel futuro”. Nessuno ha la palla di vetro e nessuno riesce a predire il futuro in maniera esatta, però quello che è possibile fare è cercare di pianificare le azioni strutturali su un periodo di congrua lunghezza e generare quella percezione di un miglioramento e di una stabilità sia internamente al paese, ma soprattutto fuori. Quindi nessun muro contro muro, ma capacità negoziale seria e obiettivi chiari. Pensate solo a quando vi trovate a lavorare con un collega, cosa preferireste, un egocentrico avvezzo alle spese folli, ma simpatico o un serio collega, preparato e lungimirante che mi dia quel senso di sicurezza di non essere solo in caso di difficoltà?
“Disponibilità”, certo a tutti fa gola avere più soldi in tasca, ma se mi aumenti la paga e contemporaneamente vengono alzate altre tasse o abbassate detrazioni e deduzioni il risultato è che non cambia niente nel potere d’acquisto. Riguardo alla Flat Tax, quindi non sono certo sfavorevole ma le coperture non sono mai state valutate in maniera empirica. Per provare una soluzione che abbia una valore scientifico, si devono avere dati certi alla mano. Se si va a tentativi e lo si fa su scala nazionale c’è un eccessivo rischio di irreversibilità. Per esempio, un detassazione accompagnata dall’aumento dell’IVA potrebbero, integrata ad una politica familiare che favorisca nuove nascite e mette in condizione chi ha necessità di spendere di avere maggiore disponibilità è possibile.
In che modo? Teniamo presente le attuali aliquote IRPEF del 23, 27, 38 e 41 e l’IVA al 22%
Un punto percentuale d’IVA in più sarebbe “digerito” meglio se accompagnato da una percezione di “conforto finanziario” ovvero una rimodulazione delle aliquote in questa modalità:

Attuale
  



Rivisto



Questa modalità porterebbe ad avere un migliore assorbimento dell’aumento dell’IVA, ma un aumento anche del potere d’acquisto da parte di tutti i cittadini, ulteriormente incrementato da una minore tassazione su quei soggetti che hanno per necessità la propensione alla spesa, ovvero le famiglie con figli. Questo incremento possibile di spesa, grazie alla percezione materiale di avere più denaro disponibile, andrebbe ulteriormente a beneficio di quell’aliquota IVA rialzata di un punto percentuale.

Certo è un bell’azzardo, ma nessuno vieta al nostro paese il tentativo e per fare questo ci sono due possibili modalità:

1)     Optare per un progetto pilota che coinvolga un Comune o una Provincia, e monitorare per sei mesi l’evoluzione della situazione in base ai nuovi parametri.

2)   Fare lo stesso tipo di analisi, ma a livello Nazionale, che abbia una durata minima che possa fornire un indicatore affidabile e che non crei enormi danni economici in caso di mancata efficacia.


V.            STIMOLI AD EVITARE IL NERO

Nessun timore, non è una campagna razzista. Il soggetto è il lavoro nero, quel mondo sommerso in cui sicuramente ognuno di noi spesso si è trovato di fronte. La scelta nella maggior parte delle volte è dovuto a ragioni di risparmio; l’etica ancora le banche non la caricano sui conti correnti. Bisogna quindi che se il lavoro non fatturato, al giorno d’oggi, fa leva sulle ragioni del portafoglio, allora è giusto operare allo stesso livello, facendo in modo che anche la fatturazione porti un vantaggio fiscale, sia al lavoratore e sia al cliente. Come? Con la possibilità di detrarre le spese per acquisti e piccoli lavori slegati dalle grandi ristrutturazioni o dal risparmio energetico e dalle loro aliquote più corpose e onerose per lo stato. La questione è abbastanza logica, se concedo uno sgravio solo al cliente, il lavoratore assorbe lo sgravio con uno sconto e il nero persiste, ma se lo sgravio è per entrambe allora la propensione alla fatturazione è maggiormente incentivata. Il guadagno per lo Stato è il fatto di vedere aumentare un introito, che seppure indebolito rispetto all’aliquota piena dell’IVA (maggiorata di un punto), permette a tutte e tre le parti di avere un beneficio. Pensiamo se per ogni tipo di piccolo lavoro il lavoratore potesse detrarre dalle tasse il 3% fino ad un massimo di detrazione pari a 5.000 euro annui (pari ad una fatturazione di circa 166.000 euro) ed al Cliente una possibilità di detrazione del 5% fino ad un massimo di 2500 euro annui (pari a 50.000 euro spesi). All’Erario entrerebbe un aliquota ridotta del 15% sulla fatturazione, ma che prima di questo incentivo sarebbe stata totalmente invisibile. Pensiamo alla portata e all’ambito di questi “piccoli lavori” come le imbiancature, i lavori di giardinaggio, di piccola muratura, di riparazione elettrica o idraulica, delle caldaie, delle imprese di pulizia, etc. Come dicevamo nel paragrafo precedente, se è vero che è la dose che fa il veleno, è vero anche il contrario ovvero che la somma di piccole dosi aumenta il beneficio.

VI.       INCENTIVO AD USUFRUIRE DEI BENI DELLO STATO E ALLA CULTURA

In uno dei passi precedenti dicevo che la cultura e in generale il turismo dovrebbero essere considerati come il vero “petrolio” dell’Italia. Ma siamo realmente certi che questo sia veramente considerato un valore da tutti i cittadini e non solo dagli imprenditori o dai politici di settore. Incentivare all’utilizzo dei beni dello stato (ville, musei, parchi, etc.) vuol dire conoscere la nostra storia, le nostre radici e la conoscenza porta al rispetto. Perché non cercare d’incentivare la frequentazione di questi luoghi con la possibilità di detrarre una percentuale dei biglietti d’ingresso, ad esempio del 10% annuo a famiglia, per un importo fino a 1000 euro (100 euro di detrazione). Lo Stato ha il dovere di mantenere e far usufruire a tutti dei beni di proprietà dei cittadini stessi. Vanno in parallelo aumentate di molto le sanzioni economiche per chi deturpa o vandalizza i beni culturali, aumentando i compiti degli “ausiliari del traffico”, al titolo di “ausiliari di vigilanza”, debitamente formati per diventare operatori di garanzia e non produttori di multe. 
Aumentare l’aliquota destinata ai recuperi, dando la possibilità di scelta della destinazione dell’8 per mille al FAI. Anche la cultura “privata” va incentivata portando l’IVA sugli spettacoli teatrali, cinematografici, sui libri e sulla musica ad aliquote agevolate rispetto alle attuali.

VII.        POLITICA PER LA QUALITA’

Ogni cosa, anche la più semplice, per durare ed essere efficace, deve essere fatta bene. Le politiche degli appalti al massimo ribasso o le partecipazioni dei municipi alle aziende, non evitano il lievitare dei costi e il miglioramento del servizio, ma nella maggior parte dei casi uccidono la concorrenza, generando zone d’ombra di conflitto d’interesse e carenza nei servizi dovuto all’aumento del peso della politica in un contesto imprenditoriale non suo. Ogni appalto deve avere una soglia minima di ribasso e da parte dell’autorità un monitoraggio anche delle performance dell’opera stessa, con applicazione di penali alte in caso di evidente scarsezza di qualità. Le opere durerebbero molto più tempo e il risparmio andrebbe alle opere di manutenzione delle stesse, mantenendo a livello locale un equilibrio occupazionale.
L’Italia è una nazione ineguagliabile sotto il punto di vista della varietà, biodiversità e bellezza. Entrando in Italia uno straniero dovrebbe meravigliarsi, rimanendo a bocca aperta fino all’uscita dal suolo nazionale. Anche la cura ed il mantenimento di decoro e pulizia delle abitazioni private (rif.§V), dei beni pubblici (rif.§VI), sono di certo politiche della qualità, che indirettamente diventano uno strumento di marketing a favore dei cittadini stranieri e di aumento della qualità della vita per i Cittadini italiani. L’Italiano è ora che la smetta, e lo dico da Italiano, di pensare che ciò che è statale non sia di mia competenza. Dobbiamo diventare tutti imprenditori del nostro paese, aumentando, salvaguardando e migliorando la molteplicità delle eccellenze. In questa maniera si può generare un continuo aumento delle esportazioni, un aumento esponenziale del turismo e conseguentemente aumento dei posti di lavoro e gettiti da tassazione di questi ambiti.

VIII.      MARKETING

L’Italia è tante cose e tra queste sicuramente un piccolo gioiello di famiglia, tramandato di padre in figlio per generazioni. E’ qualcosa per cui gli avi hanno combattuto e per quelli che li hanno succeduti un elemento di affetto e attaccamento sentimentale. Come tale non va svenduto e nemmeno venduto, ma valorizzato e fatto ammirare. Abbiamo una storia antica, controversa e complessa, creata da un popolo che ha fatto delle proprie capacità un vessillo intramontabile. Per questo motivo dobbiamo saper valorizzare ogni sfumatura, mai cadendo nell’errore dell’apologia del passato, ma nemmeno in quello di nasconderlo. L’arte, l’architettura, la letteratura, la fotografia ed ogni altra forma d’espressione è un imprescindibile biglietto da visita del nostro popolo. Ognuno di essi rappresenta una tessera di un mosaico che crea il disegno di una identità. Ogni tassello va spiegato, va capito e va contestualizzato, per poter comprendere le motivazioni e gli errori commessi e i grandi pregi e progressi. L’immagine di un popolo maturo, sincero e razionale non è ad appannaggio della creatività e allegria tipica dei latini. Torniamo ad essere “Caput Mundi”. Il nostro paese va sponsorizzato all’estero portando eventi di ogni genere e natura al di fuori dei confini, promuovendo circuiti alternativi agli standard mentali degli stranieri. Partendo da un argomento, da un interesse, da un prodotto e creando visite focalizzate sul suo percorso d’ideazione, creazione, produzione, portando la gente nelle piccole realtà provinciali, a toccare con mano dei veri e propri gioielli, forse meno blasonati, ma sempre d’inestimabile valore. C’è una caratteristica che accomuna tutta l’umanità ed è la curiosità. Cerchiamo d’incuriosire gli stranieri nel venire a scoprire l’inaspettato.

    

Io penso da Cittadino Italiano, che alla prossima tornata elettorale la maggior parte delle persone cavalcherebbero l’onda del Pragmatismo. Dei soggetti politici che hanno idee concrete e strutturate di cui farsi vessillo e non mera propaganda o tifo calcistico, non ci sarebbero di sicuro problemi nel reperire la maggioranza dei voti. 

giovedì 27 settembre 2018

L'ultimo bivacco

Tutto cominciò da un'auto in fiamme sull'autostrada del Brennero.
Il conducente, un alpino, seduto all'interno, con un movimento da contorsionista uscì dal finestrino e corse via, appena in tempo. Un'esplosione, una colonna di fuoco e fumo nero fino al cielo e le ustioni sul suo corpo.

La vita da quel momento per quel ragazzo cambiò radicalmente. Le ferite, il dolore, la paura, le sabbie mobili della depressione.

Il tempo, la volontà di una moglie e della sua famiglia, lentamente lo riportarono in superficie. Lo ricondussero in montagna, la sua amata montagna.

Ci sono storie che sono difficili da raccontare, più di altre. Perché ci riportano nel passato, risvegliano fantasmi e rendono scivoloso il sentiero delle certezze.

Ma questa è una storia diversa e per quanto possa apparire impossibile, è una storia vera: la mia.


giovedì 28 giugno 2018

L'importante non è che sia vero, ma che sia plausibile



Nei giorni scorsi, credo come provocazione, qualcuno ha scritto che ci vogliono imporre i numeri arabi. La cosa ha scatenato il diniego di migliaia di tifosi della matematica nostrana, dei paladini della numerologia italica e anche i simpatizzanti della cabala. La cosa che fa ridere alle lacrime o piangere fino all’isteria, è che pochi prima di commentare la notizia hanno pensato, hanno consultato un libro o anche solo wikipedia. Si sarebbero accorti che da secoli usiamo i numeri arabi, ma mica solo noi, in pratica tutto l’occidente anche il più estremista. Non dobbiamo temere per la nostra sicurezza, nessun numero sulle pagine di un diario o di un giornale genererà autocombustione all’urlo “Allah u Akhbar!”. In realtà nei secoli i numeri sono un pochino cambiati, figurati se non facevamo del restyling. Quello però che lascia perplessi è la sindrome da tifoseria. Una cosa non è importante che sia vera, ma che sia plausibile, perché l’importante non è il contenuto ma il giudizio che posso dare, lo schieramento che posso scegliere, la battaglia a cui inneggiare (ovviamente da casa in pantofole, all’apericena o aspettando il Kebap d’asporto da Aziz il Tunisino sorridente). Io appartengo alla generazione degli over 40 e un po’ vorrei giustificare la specie in via d’estinzione (tutte le generazioni sono destinate all’estinzione lo dice la destra, tutte le persona devono aderire volontariamente all’estinzione programmata ma senza soffrire, dice la sinistra. L’importante è che non si estinguano le ruspe, dice la Lega. Vedremo via internet cosa ne pensano gli elettori dicono i pentastellati. Il PD non dice nulla perché una macchinazione. Silvio invece non si estingue, ma raggiunge il Padre). Allora dai facciamo un piccolo decalogo di cosa ci ha portato a questa situazione di degenerazione dove siamo passati dal Rinascimento e Illuminismo al Rincoglionimento e Internettismo. Ovviamente i punti avranno lo stesso numero in Matematichese occidentale moderno, in Arabo e anche in numero romano, per chi si reputa l’imperatore dei fori Anco Sunio Accattone, discendente diretto di Marco Tullio Cicerone.
Ma procediamo con il dovuto ordine:
1 – ١ – I: Partiamo dal Rinascimento, dove se uno avesse voluto scrivere una minchiata, poteva scegliere se impiegare due settimane a squartare una capra, levare il pelo, lisciare la pelle, essiccarla oppure un paio di giorni a inserire incunaboli in una pressa. Ma poi, pochi sapevano leggere e allora il divertimento sarebbe finito subito. Allora era meglio inneggiare alle Monarchie in quel dialetto che tutti comprendevano e fracassarsi di legnate in battaglie per espandere i territori. Meno male c’era gli avventurieri, che secondo me volevano solo andarsene fuori dai cogl…ni, poi casualmente scoprivano che la terra era rotonda, anche se seicento anni dopo, nonostante i satelliti alcuni credono che sia ancora piatta. Marco Polo, Amerigo Vespucci, Colombo, Pizarro, etc. come avranno fatto senza pubblicare una beata fava su Instagram?

2 – ۲ – II: Meno male che poi è arrivato il settecento, dove apparvero i parrucconi, gli avi di Trump poterono combattersi tra nord e sud (forse erano anche gli avi di Bossi). Volevano che i loro diritti fossero se non proprio salvi, almeno salvini; e pensavano con amarezza che purtroppo non avevano ancora inventato le ruspe. In Europa eravamo seriosi come un clown in tribunale e le questioni religiose strofinavano quelle secolari e facevano scintille. Alla fine tutti andavano a fracassarsi di legnate in battaglie per espandere le proprie ragioni.

3 – ۳ – III: L’Ottocento, l’epoca moderna, lo sviluppo dell’industria, della medicina. La gente legge di terre lontane e sogna di vivere avventure inimmaginabili, sorseggiando gin nei circoli di Londra. Pochi stanno bene, la moltitudine vive ancora come l’uomo delle caverne, con l’unico svago nell’ubriacarsi per allontanare il senso di patimento o andare per donne a pagamento, millantate per streghe dalle stesse persone che non avevano ottenuto lo sconto sulla prestazione. Cominciano le battaglie del diritto, si ravvivano le volontà di consolidare il potere e gli imperi o stati. E allora giù tutti andavano a fracassarsi di legnate in battaglie per espandere il proprio egocentrismo. Libri ne avevano di più, ma solo i più abbienti erano in grado di leggerli e le lettere o i messaggini venivano consegnati dal nonno di Twitter: il piccione viaggiatore.

4 – ۴ – IV: Arriviamo al novecento, secolo che mi appartiene. Il progresso si dedica all’arte dell’automotive, del volo a motore, delle bombe a mano che però non sono ancora intelligenti devono andare a scuola anche loro. Fino al 1945 nel mondo ci sono molte guerre, l’Europa è il teatro delle due guerre mondiali dove la gente cominciava a capire che non ci si guadagna tanto ad andare a fracassarsi di legnate in battaglie per espandere l’interesse degli altri. Arrivò la fotografia, però era ancora acerba e per fare un selfie dovevi rimanere immobile sette ore come un’artista di strada sul marciapiede che imita una statua, scomodo. Poi arrivò anche il video, prima muto e poi con il sonoro. Se volevi vedere qualcosa però dovevi farti bello e uscire di casa per recarti nella sala di proiezione. Il concetto di multisala e 3D è arrivato un pochino dopo. Leggere era una bene importante, difficile da reperire tra bombe ed epurazioni. La gente era ancora munita di voce e parole e comunicava con degli strumenti mediatici che liberavano onde sonore modulate nell’aria fino a raggiungere un decriptatore di impulsi, ovvero, le corde vocali.

5 – ۵ – V: 1945/1950 da qui in poi mi fermo al solo perimetro della mia Italia. Molto è stato distrutto e il morale è basso ma c’è voglia di ripartire. E’ il periodo in cui è nato mio padre, in cui si aveva poco e lo si doveva far durare e soprattutto bastare. Dove la casa se la costruivano loro, mica con l’impresa, l’architetto e l’arredatore d’interni. Quando i fossi si saltavano per il lungo e quando “ai miei tempi” ogni cosa era fatta meglio. La generazione dei consulenti da cantiere. C’era ancora qualche dissapore profondo tra chi era stato Balilla e chi della Resistenza e allora, tanto per cambiare: tutti andavano a fracassarsi di legnate in battaglie per espandere le proprie vendette.

6 – ۶ – VI: 1950/1960 E’ l’epoca di mia madre, cominciano a intravedersi alcuni segnali di ripresa. La didattica e la disciplina scolastica sono ancora molto ingessate e alle elementari si studiano cose che oggi non si fanno neanche alle superiori. La pedagogia è ancora poco considerata, mentre prevalgono ancora le pluri-medagliate pedate nel culo. Aumenta l’istruzione delle persone, che però sono ancora diffidenti verso il progresso, timorose del lungo periodo di guerra passato e vivo nei ricordi dei loro genitori. Appare la televisione, quella a valvole che si doveva scaldare dieci minuti prima di accendersi, che poi dovevi sintonizzare a mano e che (orrore!) dovevi alzarti dal divano per cambiare canale. La maggior parte delle persone aderisce ai movimenti del Comunismo nostrano in contrapposizione al Clero dei Preti di campagna che nella tradizione più genuina: andavano a fracassarsi di legnate in battaglie per espandere le proprie convinzioni.

7 – ۷ – VII: 1960/1970 Finalmente la ripresa c’è si vede e regna l’ottimismo e la voglia di spassarsela, godersi la vita. Essere spensierati e meno rigidi del passato. La guerra fredda tra USA e URSS è il primo argomento che ci vede spettatori e commentatori. In casa abbiamo le BR, con i loro comunicati e le maledette bombe. Già, siamo tutti più colti ed emancipati, quindi non basta più fracassarsi di legnate in battaglie per espandere le proprie convinzioni, no, serve altro serve fare del male a caso, senza veder in faccia a chi sto nuocendo la salute e rovinando la vita sua e della sua famiglia. Il progresso è in corso, è un treno inarrestabile, la fame sta per essere debellata in Italia e le menti devono concentrarsi su qualcosa di più leggero per scappare ai fantasmi ed alle paure del recente passato.
8 – ۸ – VIII: 1970/1980 E’ la decade della nascita di un impenitente pessimista e disilluso: io. I vaccino sono obbligatori e i censimenti si fanno senza indignazione. Arrivano le mode dagli States e sei “in” se cominci ad essere anticonformista. Nel benessere ci si annoia e allora avendo meno nemici con cui interporre le proprie passioni…. ci si può fracassare di legnate in battaglie con se stessi per espandere le proprie esperienze ultrasensoriali attraverso l’uso di eroina. Compaiono uomini con l’alone fuxia intorno che sono da evitare come la peste nera. Però c’è ancora ottimismo, c’è ancora il richiamo dei figli dei fiori, del volemose bene nello spirito basta che poi se tromba. Insomma i primi anni da neonato sono un po’ destabilizzanti dal punto di vista culturale. Sono gli anni delle basette selvagge e delle cofane piene di lacca. Dei vestiti dalle fantasie improponibili e dei pantaloni a zampa d’elefante e il borsello in cuoio. Insomma da una parte i giovani con Peace & Love e dall’altra i genitori con “Uh Signur varda giò”. E tutto passò cantando “mettete dei fiori, nei vostri cannoni” bella lì Bob Marley, uh yeah!!

9 – ۹ – IX: 1980/1990 Ah l’adolescenza… terra di nebbie e timori. I ragazzi, me incluso, crescono con poca televisione, ma quella che c’è, è terra di conquista per i disegnatori Giapponesi. Non c’è un cazzo di cartone animato in cui non ci sia un orfano, un malato terminale che dura comunque 37 stagioni o un genitore scappato di casa. I fiori nei cannoni li hanno messi in tanti, infatti….le caprette ti fanno ciao…. Sui campi da calcio arrivano Holly e Benji e i loro compagni dalla porta osservano l’orizzonte in campetto di periferia lungo come la Milano-San Remo e che ospita più pubblico del Maracanà. Si salta sulle traverse e si buttano giù i muri a pallonate. E’ il tempo dell’anticonformismo convenzionale, ovvero facciamo gli alternativi tutti uguali. Altro che Petaloso…. Noi avevamo i paninari, i metallari e i dark, le sfittinzie, la cumpa e altre innumerevoli declinazioni dell’influenza Statunitense. I video giochi erano al bar e se entravi là dentro uscivi affumicato come un salmone norvegese. A casa con gli amici si faceva il “gioco della bottiglia” oppure “obbligo o verità”, giusto per strappare un bacino alla compagna di classe gnocca che aveva il diario tappezzato di foto di Eros (Ramazzotti), e sempre Ramazzotti c’era la Milano da bere, quella della notte…della Fennech, della Bouchet. Non c’erano i reality, né amici di Maria (quelli c’erano ma stavano in stazione e ti chiedevano cento lire), né i tronisti. A pensarci ora mi viene in mente Bombolo quando diceva: “tz tz ma vvaaffancuuulo….va”. Negli stadi ci si fracassa di legnate in battaglie per espandere le proprie bandiere.

10 - ۱۰  – X : 1990/2000 … e oltre. E’ il confine, l’era del virtuale. Dopo le notti magiche, dopo la notte prima degli esami, tutto comincia diventare più serio, di nuovo. Forse sono cresciuto e vedo le cose diversamente io. Mi sento ridicolo, percepisco l’umana scioccaggine delle masse e sento l’impulso di usare la testa. Di capirle le cose e non di rifletterle come uno specchio. Mi sa che sono diventato vecchio, forse non troppo perché non me ne frega nulla dei cantieri stradali. Capisco vedendo ragazzi che si fanno chiamare Millennials, che per loro sono la storia. Un po’ mi vergogno se rileggo le righe di prima e mi viene un dubbio si è evoluta la tecnologia o si è evoluto l’uomo?

Noi stiamo qui a parlare di numeri e di come scriverli, ma pensiamo all’adesso, che ciò che facciamo domani sarà stampato su un libro di storia e qualcuno leggerà cosa abbiamo fatto. Forse è il tempo di pensare alla sostanza, perché la sola forma….non è importante che sia vera, ma solo plausibile…come questa storia del piffero.

Stefano Camòrs Guarda

venerdì 9 febbraio 2018

Korean winter Olympic Games ....


Ci sono, in alcune occasioni, dei sogni talmente strani, eppure così realistici che è difficile capire se si stia vivendo veramente in una fase di veglia o di sonno. Alle volte, per essere onesti, ci si rende conto che le cose non sono poi tanto realistiche, ma ci piacciono e divertono talmente tanto che ci si augura siano davvero così.  Oggi, quindi, giorno dell’inaugurazione dei giochi olimpici invernali di Bim bum bam o Ping pong gum o … qualsiasi altra cosa tanto non sarà mai pronunciabile per me, è una di queste.
Osservo le immagini alla televisione, rapito e contemporaneamente confuso, di bimbi che lanciano felici palle di neve e ci sono i fuochi d’artificio, si fanno capriole e canti….. o forse sono solo bombe a mano nel derby tra le due Coree. Le discipline sono state leggermente variate perché, per rendere meno offensivo il risultato delle performance ai più scarsi, alla fine sono state modificate tutte le regole. Le specialità dello sci alpino sono state capovolte e gli atleti devono risalire la pista facendo la “scaletta” e così la “salita libera” è stata vinta da un Ghanese che d’estate fa 45km al giorno di spiagge per vendere il cocco. Il bob è stato modificato e si gareggia su delle Kia Sportage, operazione di marketing necessaria per pagare le spese dei giochi. Per la Par Condicio le gare di fondo sono state aperte solo alle persone che hanno un’età superiore ai 65 anni, disciplina ribattezzata inevitabilmente “fondo pensione”; ed ecco quindi il nostro Pellegrino diventare un allenatore OSA. Il pattinaggio su ghiaccio proibisce gli abiti succinti e impone un rigido comportamento congruo ai costumi di tutti paesi del mondo, per non rovinare la superficie ghiacciata, nel rispetto del valore dell’acqua, agli atleti sono stati sostituiti i pattini con le pattine, ovviamente confezionate dalle nonne degli atleti nella gara di combinata ad uncinetto. Per rilassare le tensioni internazionali è stata organizzata la ciaspolata enogastronomica dei cinque cerchi, poi scesi a quattro cerchi; essendo il conto della mangiata pagato dallo sponsor Audi. Ed ecco così tra la meraviglia e lo stupore generale, ormai tutti hanno capito che lo spirito dei giochi è appunto giocare: così si organizza la più grande gara mai svolta di pupazzi di neve. Purtroppo la nazionale Americana viene squalificata perché andata fuori tema; il pupazzo di neve con il ciuffo giallo e il pulsantone rosso da schiacciare, a parte l’essere inguardabile, non è nemmeno attinente.
Quello che non si riesce a capire è la distribuzione dei preservativi agli atleti da parte dell’organizzazione. A parte il fatto che di solito si sta in camera con altra gente e andare in camporella a -20C° risulta difficoltoso, se non altro più che per infilarlo il cappuccio e trovare l’arnese. Ma perché l’atleta non può portarseli da casa i preservativi se ha in mente di fare del tiro al piattello notturno? Forse c’è il rischio che si faccia uso di doping attraverso l’assorbimento cutaneo del membro? Beh, in quel caso capisco perché il doping è considerato reato “penale”.
Poi, però, è nella pausa delle gare che si capisce che è tutto un sogno. Alla pubblicità dicono addirittura la verità: Bevi “Cola lola” è buona ma fa male alla salute…, oppure, Gioca on-line e ammalati, tanto a noi interessa che sganci i soldi…., e ancora, Annuncio politico a Forze congiunte: Cari elettori vi chiediamo scusa per avervi spremuto e preso per il culo in tutti questi anni, andremo avanti a farlo non preoccupatevi, però almeno abbiamo l’onestà intellettuale di dirvelo.    
In quel momento il suono della sveglia ti conferma la natura onirica della situazione. Ti desti e riprendi lucidità, consapevole che, per quanto diverso, anche la tua realtà non è meno assurda.


Stefano Camòrs Guarda

venerdì 2 febbraio 2018

Quesiti aguzzi, pensieri rarefatti, orizzonte limpido


Ci sono momenti nella vita di alcune persone – molte più di quelle che uno s’immagina – in cui si ha la sensazione di aver vissuto, fino a quel momento all’interno di una bolla dalla superficie opaca, ma in quel momento quella sfera si sia disintegrata. In quell’istante le cose che ci circondano appaiono diverse, le persone che ci circondano non sembrano più le stesse: emergono alla vista tutte le storture, le forzature, le mancanze e le debolezze. Quando questa sensazione non è mirata ad una singola persona ma all’intera società in cui la nostra esistenza è amalgamata come una goccia nel mare, tutto diventa estremamente complesso e faticosissimo da trascinare. Nessuno si aspetti un piagnisteo fine a se stesso, quello che è curioso osservare è se però è davvero così facile cambiare le cose o cambiare la propria vita. L’essere umano per natura è imperfetto, inoltre, a peggiorare la situazione, c’è che è anche in continua mutazione, sia fisica che mentale. Ecco quindi che le cose che un tempo ci apparivano “su misura” in tempi diversi possono diventare degli “abiti stretti” o “larghi e ingombranti”. Ovviamente è facile intuire come non sia possibile – se non per rarissime privilegiate eccezioni – l’esistenza di una tale apoteosi di libertà che consenta di svegliarsi ogni mattina e di decidere cosa fare delle ore della propria vita. L’istinto di sopravvivenza concede all’essere umano una certa capacità d’adattamento e sopportazione; questa probabilmente era l’unica opzione possibile alla natura per non arrivare all’estinzione. Oggi, questa resistenza, la chiamiamo consuetudine, oppure quotidianità. Alcuni usano termini più stranieri per darsi un tono come “standardizzazione”. Siamo pronti a reggere lo scoppio della bolla, di cui facevamo cenno pocanzi, e a farci investire violentemente da un quesito: Qual è la verità?
Già la verità, una parola che vuol dire tutto e molto spesso niente. Il pensiero “io non sto bene” per me può essere una verità solo se decontestualizzata, poi le evidenze oggettive mi indicano che potrebbe esserci una percentuale di occasioni in cui è vero non sto bene, ma anche altre in cui invece sto bene. Quindi il mio primo pensiero è già formato da una verità parziale. Questo modo di pensare poi si è diffuso anche ad altri ambiti come, ad esempio, la società in cui si vive. Quando si parla del proprio paese, noi Italiani, siamo propensi a dire che è sempre tutto sbagliato, focalizzando quel pensiero alla singola negatività senza contestualizzarla nell’ampio spettro situazionale esistente. Molte cose non vanno, molte altre si. Quello che forse manca, a me in prima persona, è l’istinto di forzare la propria mente verso una capacità analitica globale. Questa abilità nel discernere la negatività dalla positività e quindi poterla seguire, non la insegna nessuno. Chi pensa che sia uno sfogo verso la scuola sbaglia, questa propensione va inculcata in famiglia e mostrata con l’esempio diretto. In questa maniera cadrebbero molti degli stereotipi da cui oggi le persone vengono attratte: ammazzarsi di lavoro per poi non avere il tempo di accorgersi delle piccole meravigliose gratuità della vita, invidiare il lusso di persone che in realtà conducono esistenze meno felici delle nostre, nascondere se stessi per avere atteggiamenti e costumi che vadano bene a tutti. Quelli che si credono alternativi, non hanno capito che oggi esiste una standard di alternatività. Si radicano falsi miti che vengono fintamente ammirati e sommessamente subiti. La forza, l’arroganza, la prepotenza non rendono un uomo un maschio alfa, lo rendono un coglione. Perché è così difficile capire che se importa solo il mio benessere, non sto perseguendo la strada della positività e cioè quella che mi fa provare un piacere più profondo nel condividere una gioia con altre persone. Un giardino senza erbacce, circondato da giardini stracolmi di erbacce, si ottiene solo con l’intensivo uso della chimica. Non è naturale.
Galleggiare sul presente o bagnarsi un po’ per condividere il futuro. Ci sono parole meravigliose che ormai appaio desuete: altruismo, gratuità, rispetto. Pensiamo un istante se tutta la gente compiesse ogni azione quotidiana focalizzando lo scopo di quella azione su queste tre parole: altruismo, gratuità e rispetto. Forse si, allora avremmo un vero ulteriore stadio di evoluzione. Quelle parole meritano un sacrificio di fatica e di sopportazione, ma che se propende alla positività diventa generosità tangibile. Non dobbiamo creare e nasconderci in mondi o vite virtuali che intorpidiscono la mente e ci fanno perdere il senso del tempo.  Alle volte non si riesce a materializzare un concetto perché intangibile, ad esempio il tempo appunto, eppure noi avvalendoci della matematica, dei numeri, potremmo comprendere che una persona che vive fino a 75 anni ha a disposizione solo 900 mesi. Possono essere considerati tanti, oppure pochi e non sprecabili; perciò è più che un dovere porsi la domanda: Qual è la verità?                     


Stefano Camòrs Guarda

lunedì 22 gennaio 2018

La voce degli avi - intervista a Guido Rey (mountain's echoes)


Io credetti, e credo
la lotta con l'Alpe
utile come il lavoro,
nobile come un'arte,
bella come una fede. 

Una delle domande più frequenti che un alpinista si sente chiedere, seconda solo all’affermazione sarcastica del “ma chi te lo fa fare?” è il “perché lo fai?”.

Anche il solo tentativo di spiegazione, a chi non ha mai provato un’esperienza del genere può essere considerato come una sfida improba; ma già in origine ricercare in sé stessi le parole per riassumere sensatamente quella pangea di sentimenti, pensieri, ideali che ci avvolgono, quella spinta motivazionale a volte rasente l’irrazionalità, è tutt’altro che banale. La questione diventa, ammesso che possa, ancora più complessa se questa domanda viene posta ad un alpinista amatoriale. Certo i professionisti hanno motivazioni del tutto differenti, gli alpinisti estremi e quelli di punta ormai sono, per preparazione, assimilabili ad atleti professionisti e quindi con obiettivi e primati da rispettare o quantomeno tentare. Ma un amatore non ha nulla da superare, se non il proprio limite. Dei resoconti delle sue ascensioni nessuno si cura, se non qualche amico con la medesima passione e con cui condividere bicchieri di grappa o genépy, progetti e, appunto, ricordi di vetta.
Per cercare di approcciare questo argomento, e soprattutto cercare di capire chi è l’alpinista amatoriale e cosa muove le sue pulsioni montane, mi appoggio ad un grande esponente dell’alpinismo di inizio ‘900, Guido Rey, cui nelle impareggiabili testimonianze da lui lasciate emerge, in modo cristallino, come il connubio ascensione alpinistica/animo umano sia quanto mai indissolubile.
Vorrei tentare un gioco e partendo da ciò che è già un lascito storico, costruire alcune domande e dare vita ad un’intervista postuma; nella speranza che dalle vette celesti, il nostro ispiratore non abbia a contrariarsi.
Le risposte di Guido Rey sono frasi realmente esistenti e tratte da due suoi celebri libri: Il monte Cervino e Alpinismo Acrobatico, entrambi scritti nei primi anni del novecento.
Certamente quanto sotto riportato non ha l’azzardo di essere una ricostruzione storica attendibile, anche perché le brevi frasi così estrapolate vengono decontestualizzate rispetto all’ampiezza degli argomenti trattati nella completezza dei libri . Il mio unico scopo è quello di rendere omaggio ad una grande modello d’ispirazione, che tanto dona con le parole lasciate in eredità alla storia del territorio e al tesoro più grande che le generazioni future dovrebbero far fruttare: il rispetto.  

---O---

Signor Rey, ai suoi tempi l’alpinista professionista non esisteva, chi tentava le vetta aveva più o meno la preparazione che hanno al giorno d’oggi taluni amatori. Ma chi è questo genere di alpinista? Un super uomo che ha un fisico d’acciaio e una ferrea e inscalfibile volontà?    

G.REY: “L’alpinista non è di ferro; un momento di debolezza fisica può capitare ad ognuno, anche alle guide. Se l’alpinista non fosse un uomo fragile, non avrebbe il sentimento della durezza della montagna, non godrebbe del contrasto che sgorga dalla coscienza della disproporzione delle proprie forze con la forza infinita che ha da vincere, contrasto che è forse una delle ragioni più profonde della sua passione”.  

Bene, direi che è estremamente condivisibile, ma quindi proprio in natura di questa coscienza d’inferiorità verso le montagne, il solo tentativo nell’affrontare questa lotta è, a suo avviso, solo mosso da un’immane incoscienza e alterigia o c’è altro, di più profondo e al contempo di celata evidenza?   

G.REY: “Quando l’uomo fiuta il rischio, diventa uomo per davvero con quanto esso ha di più primitivamente bello e valente; coraggiosi come un piccolo animale che difende la sua vita da un mostro cento volte più grande e più forte di lui; impassibile come doveva essere il primo uomo che traeva la vita fra le difficoltà della natura, alla guisa delle fiere, che soffriva e godeva, ma forse non piangeva né rideva ancora. In questa lotta stretta col monte il malato si rassegna e si accascia; il sano si compiace dell’aspra voluttà della contesa, e, quando giunge a liberarsi delle strette del mostro, respira come non ha mai respirato in vita sua”.

Meraviglioso paragone, ovviamente gli uomini primitivi non disponevano di strumenti specifici per attività di questo tipo. Com’è il suo rapporto con l’accessorio alpinistico?

G.REY: “E’ della piccozza come di certi amici: desiderate averli al fianco nel momento del bisogno; passato questo, alla prima noia che vi danno, vi riescono importuni, e, nel corto egoismo umano, non pensate che fra breve potranno giovare ancora”.

Garbato e fine umorismo, immagino che l’ironia sia una componente fondamentale nella resistenza psicologica. Nei tempi moderni le vie o meglio i “problemi irrisolti” non sono più così tanti come ai sui tempi, quindi numerose sono le cosi dette “ripetizioni”. Il valore di una ripetizione è a parer suo altrettanto soddisfacente rispetto all’apertura di una via?

G.REY: “La vera virtù è del primo che la compie; ma esso stesso, nel compierla, la rende accessibile ad altri epperò meno alta. Alle ansie, allo slancio audace dell’artista che crea, si sostituisce la calma e la sicurezza servile di chi copia. E se avviene che taluno rinnovi l’opera, ancorché portandola a più perfetto compimento non avrà né il merito né le gioie che toccarono al primo”.

Quindi se comprendo appieno il senso, la montagna è sopra tutto per gli audaci che cercano una certa unicità nell’approccio alla roccia e al ghiaccio. Ma l’ambiente montano è limitante alle esclusività alpinistiche o è affabile ad altre tipologie umane?

G.REY: “Ma la montagna è così benefica e grande che tutti accoglie quelli che si volgono a lei, e a tutti giova: agli scienziati che ne fanno oggetto di studio; ai pittori ed ai poeti che vi ricercano un’ispirazione; ai robusti che anelano ad intense fatiche, come agli stanchi che fuggono l’afa e le noie della città per ristorarsi a questa sorgente purissima di salute fisica e morale”.

In buona sostanza la frequentazione della montagna e in special modo la pratica alpinistica sono propedeutici ad un percorso più intimo e completo della persona, è corretto?  

G.REY: “L’alpinismo è cosa umana, naturale, come è naturale il camminare, il guardare, il pensare; umana come tutte le passioni, con le sue debolezze, i suoi slanci, le sue gioie e i suoi disinganni, e, come altre passioni, esalta e matura l’animo umano”.

Qual è, a suo parere, il valore più grande nel passare del tempo in un ambiente montano?  

G.REY: “Vi sono dei giorni in cui viene di destarsi di buon umore, in cui ci si sente più sani e più valenti, non si dubita di noi stessi, le cose più difficili ci sembrano facili, e quasi si desidera di incontrare le difficoltà pel piacere di superarle. Sono giorni eccezionali, ma certamente più frequenti in montagna che in città”.

Penso che in quello che dice molti di noi potrebbero confermare immedesimandosi in quel senso di armonia che si prova quando si percepisce l’esistenza di un equilibrio, sia nelle cose della natura – di cui siamo parte- ma anche nell’intangibile intimità della nostra mente. A tal proposito, un semplice visitatore cittadino cosa dovrebbe pensare nel vedere un alpinista avviarsi verso le proprie ardite sfide?

G.REY: “Per quanto in questa lotta l’animo nostro parteggi, non possiamo che ammirare quell’uomo appassionato del suo monte, come di un ideale altissimo. E’ una lotta che ricorda le giostre antiche ove per un fiore si esponeva la vita”.

Secondo Lei, nel rapporto tra l’alpinista e la montagna, è nell’uomo che permane un animo giovane come che vuole scoprire nuove prospettive, oppure è la montagna in sé che emana una energia occulta che magnetizza l’attenzione, alimentando questa profonda passione?

G.REY: “Bisogna pure che nei monti sia un fascino segreto perché essi ci attraggano a cercarvi difficoltà e fatiche sempre maggiori, e perché tanto più li amiamo quanto più ci hanno costato. Ma questi segreti l’anima giovinetta non analizza; essa va impetuosamente a ciò che l’attrae, senza domandare il perché”.

Lei è credente, ma pensa che in termini di fede, un arduo cammino e l’estasi della vetta si manifestino in ogni uomo?

G.REY: “Quassù anche lo spavaldo tace, e lo scettico non ride se vede una guida deporre l’obolo nella bussola dell’elemosine, e scoprirsi il capo nel passare davanti alla statuetta della Madonna”.

Attraverso la Sua mirabile esperienza e cultura, come potrebbe descrivere ad un neofita l’esperienza catartica del raggiungimento della vetta?  

G.REY: “Il pane che divoravo lassù aveva un sapore che non avevo mai gustato. E scopersi la gioia nuovissima, inesplicabile, di giungere sul punto culminante, ove è la vetta, ove il monte ha cessato di salire e l’animo cessa di desiderare: è una forma quasi perfetta di soddisfazione dell’istinto, quale forse la prova il filosofo che ha conquistato alfine una verità nella quale la mente sua si appaga e riposa”.

Quindi la montagna non viene idealizzata come una divinità, ma piuttosto come un nemico da affrontare o, meglio ancora, un amico con cui crescere a conoscersi nel viaggio della vita?

G.REY: “Il monte vive, come gli uomini, dalla sua vita che lentamente lo consuma, e di questa vita dà tratto tratto pericolosi segni”.

Come vedevate, ai vostri tempi, le imprese o i tentativi degli alpinisti di metà dell’ottocento e cosa consiglierebbe agli alpinisti moderni che, magari non conoscendo la storia di un monte o di un alpinista, reputano – ma solo con l’utilizzo di attrezzature moderne – una via classica non difficile, se non addirittura semplice?  

G.REY: “E’ nostro dovere conservare il culto poetico del passato dell’alpinismo. Crawford Grove, il secondo alpinista che salì al Cervino, ha lasciato scritto: << Possa la giovane generazione, che esulta in facili vittorie sul monte altre volte temuto, non guardare con disdegno al progresso dei pionieri delle alpi >>”.

Posso chiederLe di dare un prezioso suggerimento, in base al suo vissuto, verso tutte quelle persone che usualmente approcciano o hanno intenzione di frequentare in un futuro l’ambiente montano?

G.REY: “Provai gioie troppo grandi per poterle descrivere, e dolori tali che non ho ardito di parlarne. Con questi sensi nell’animo io dico: Salite ai monti, ma ricordate che coraggio e vigore nulla contano senza la prudenza; ricordate che la negligenza di un solo istante può distruggere la felicità di tutta una vita. Non fate nulla con la fretta; guardate bene ad ogni passo, e fin dal principio pensate quale può essere il fine”.

Un’ultima domanda prima di accomiatarci e ringraziarla per la Sua preziosa testimonianza. Come descriverebbe, a chi non è avvezzo alle cime, i benefici che apporta l’esperienza montana e se è vero che alcuni sentimenti vengono addirittura amplificati e percepiti nella loro pienezza?  

G.REY: “Vorrei che gli increduli provassero il benefico effetto che produce in noi una grande salita. Allora ci sembrano macchine la vanità che ingombra il nostro animo prima di partire; troviamo buoni gli agi di cui prima eravamo sazi; sentiamo di amare di più la nostra casa e la famiglia che in essa ci attende; anche noi, alpinisti, abbiamo i nostri affetti, ai quali pensiamo, nel momento del pericolo, assai più intensamente che non vi pensi altri quando vive della sua vita consueta; e, scendendo dai monti, siamo lieti di recare ai nostri cari la serenità acquisita lassù, di vederli sorriderci perché sanno che la montagna restituisce loro un figlio, un fratello, un amico più sano, più affettuoso e forte”.

L’intervista è ultimata e non posso che ringraziare nuovamente, anche se in maniera virtuale, un alpinista, uno scrittore, un maestro di vita, che con le sue testimonianze è capace ancora oggi, di tenere legati alla stessa cordata l’odierna modernità ad una passato lontano, recuperando i margini sbiaditi del ricordo e donando ai posteri il dono più ampio che l’intelletto umano possa ricevere: l’incoraggiamento verso una reale contemplazione.

Stefano Camòrs Guarda