mercoledì 22 novembre 2017

Il custode del tempo

  Quando arrivi a Cicogna capisci che lì la Val Grande comincia davvero. Gente ne vedi poca, soprattutto se ci vai nei giorni della settimana, quando i pochi residenti devono scendere per andare a lavorare. Capita allora che costeggi il cimitero e segui lo sterrato fino alla piazzola elicottero; poi da laggiù solo sentieri percorribili a piedi. Da quella parte vai verso gli alpeggi di Montuzzo, e più avanti Velina. Borghi fantasma, per lo più abbandonati e diroccati, solo qualche sparuta baita di appassionati è stata rimessa in condizione di agibilità. Lì è scomodo. Scomodo arrivarci, ci vuole quasi un’ora, scomodo rimanerci, difficilmente si ha acqua corrente e luce. Però lì è vero, aspro, nulla di addomesticato. Il nostro istinto questo stato lo percepisce e per tutto il tempo rimane in balia del timore, della reverenza, quasi dell’inquietudine. Poi si finisce per innamorarsene. La natura è la padrona e l’uomo è ospite, neanche tanto desiderato. Te lo fa capire, lo fa intendere con superiore distacco e indifferenza. Laggiù o sei capace d’arrangiarti o sei finito. In quel luogo conobbi un uomo, uno che sapeva cosa e come fare. Una persona che aveva scelto quel luogo e quel luogo aveva accettato lui.
   Gianfranco, era della Valtellina o più o meno di quelle parti, mi raccontò lui un giorno all’alpe velina, mangiando del salamino di capra selvatica. Era scalzo, con le piante dei piedi che parevano suolate di gomma vibram, e mi parlava con semplicità e lucidità. La solitudine quotidiana, interrotta dalle sporadiche visite, gli regalavano scorci di una vita lontana, che aveva scelto di abbandonare. Una vita mai rimpianta. Lo rincontrai altre volte, quando aveva sistemato una baita nell’alpeggio di Montuzzo, per passarci la stagione invernale. Quel giorno eravamo soli e mi raccontò la sua storia.
   Passò l’infanzia in un collegio che pareva più un orfanotrofio. In realtà una madre l’aveva e le voleva bene, ma abbandonati dal padre, la madre non potendolo mantenere dovette darlo in affido ad un Istituto. Le regole erano davvero rigide e la libertà del suo spirito poco si addiceva a quell’impronta educativa. Appena poté abbandonare quel posto, lo lasciò e partì in cerca del suo destino. Fece i lavori più svariati e si pagò la patente per la conduzione degli autobus, con la quale trovò lavoro nel paese di Sesto Calende come conduttore. La domanda più spontanea, sicuramente anche la meno originale che potessi fare, fu come fosse finito a fare l’eremita in Val Grande. Con un sorriso compiaciuto, mi rispose di avere sempre sentito che la modernità in cui viveva, in realtà non gli apparteneva. Si sentiva disadattato, sapeva di non essere del tutto convenzionale, sia nei modi di fare che di pensare. Aveva una profonda passione e rispetto per la natura, e quando alcuni colleghi gli fecero conoscere la Val Grande rimase ammaliato.
   Un giorno mentre stava guidando il bus, un ragazzino gettò dei rifiuti dal finestrino. Gianfri, se ne accorse e fermò il bus. Andò vicino al ragazzo e con la delicatezza e gentilezza che lo contraddistingueva, gli chiese di scendere e raccogliere ciò che aveva gettato a terra. In quel momento, non solo fu schernito dal ragazzo in questione, ma anche minacciato e insultato da tutti quelli che erano sul bus.  Ricordo ancora la frase lapidaria che seguì - in quell’attimo capì che quello non era più il mio mondo. Spensi l’autobus e lo lasciai lì, con tutti sopra che si chiedevano cosa avevo in mente. Io semplicemente scesi e a piedi raggiunsi il comune, dove formalizzai le mia dimissioni. Avevo deciso di venire a stare da solo qui su.
   Da lì Gianfri, diventò l’eremita della Val Grande, l’uomo che a piedi seguiva gli spostamenti di daini, cervi e cinghiali. Non era vegano, vegetariano o altro. Sicuramente non carnivoro. Si nutriva, diceva - di ciò che il bosco offriva. Molti lo hanno conosciuto e molti lo hanno avuto come compagno di cammino. Aveva un suo particolare carisma e alcuni avrebbero voluto specularci sopra. Mi raccontò che una persona, una volta, venne a dirgli che volevano fosse ospite del Maurizio Costanzo Show. Lui rispose, senza cattiveria o astio, che per lui non c’erano problemi, ma che se Costanzo voleva parlargli sarebbe dovuto venire lui in Val Grande.
   Questa breve storia, veritiera o forse no (poco importa) non vuole creare un mito, ma solo ricordare una persona speciale che mi ha fatto molto riflettere. Prima di salutarci per il mio ritorno a casa, accompagnandomi a piedi durante il cammino, mi disse: - La Val Grande non l’abbandoni mai, se l’hai nel cuore è sempre con te. Qui io mi sento la persona più ricca del mondo. La persona più ricca è quella che non corre il rischio di perdere niente. Un giorno io chiuderò gli occhi e partirò per una altro viaggio, senza lasciare o perdere nulla.

   Gianfri era questo: un’ombra nel bosco, il fruscio dell’aria, lo scricchiolio del legno. Da qualche anno Gianfri è partito per l’altro viaggio, chiudendo gli occhi e non perdendo nulla. Qualcuno ancora trova delle impronte di piedi scalzi nella terra umida, tra i castagni secolari e i sassi ammassati, dimore di bisce e di ragni. Io non ho mai avuto dubbi sul fatto che in un modo o nell’altro, la Val Grande, non l’avrebbe abbandonata.     

Stefano Camòrs Guarda

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