lunedì 22 gennaio 2018

La voce degli avi - intervista a Guido Rey (mountain's echoes)


Io credetti, e credo
la lotta con l'Alpe
utile come il lavoro,
nobile come un'arte,
bella come una fede. 

Una delle domande più frequenti che un alpinista si sente chiedere, seconda solo all’affermazione sarcastica del “ma chi te lo fa fare?” è il “perché lo fai?”.

Anche il solo tentativo di spiegazione, a chi non ha mai provato un’esperienza del genere può essere considerato come una sfida improba; ma già in origine ricercare in sé stessi le parole per riassumere sensatamente quella pangea di sentimenti, pensieri, ideali che ci avvolgono, quella spinta motivazionale a volte rasente l’irrazionalità, è tutt’altro che banale. La questione diventa, ammesso che possa, ancora più complessa se questa domanda viene posta ad un alpinista amatoriale. Certo i professionisti hanno motivazioni del tutto differenti, gli alpinisti estremi e quelli di punta ormai sono, per preparazione, assimilabili ad atleti professionisti e quindi con obiettivi e primati da rispettare o quantomeno tentare. Ma un amatore non ha nulla da superare, se non il proprio limite. Dei resoconti delle sue ascensioni nessuno si cura, se non qualche amico con la medesima passione e con cui condividere bicchieri di grappa o genépy, progetti e, appunto, ricordi di vetta.
Per cercare di approcciare questo argomento, e soprattutto cercare di capire chi è l’alpinista amatoriale e cosa muove le sue pulsioni montane, mi appoggio ad un grande esponente dell’alpinismo di inizio ‘900, Guido Rey, cui nelle impareggiabili testimonianze da lui lasciate emerge, in modo cristallino, come il connubio ascensione alpinistica/animo umano sia quanto mai indissolubile.
Vorrei tentare un gioco e partendo da ciò che è già un lascito storico, costruire alcune domande e dare vita ad un’intervista postuma; nella speranza che dalle vette celesti, il nostro ispiratore non abbia a contrariarsi.
Le risposte di Guido Rey sono frasi realmente esistenti e tratte da due suoi celebri libri: Il monte Cervino e Alpinismo Acrobatico, entrambi scritti nei primi anni del novecento.
Certamente quanto sotto riportato non ha l’azzardo di essere una ricostruzione storica attendibile, anche perché le brevi frasi così estrapolate vengono decontestualizzate rispetto all’ampiezza degli argomenti trattati nella completezza dei libri . Il mio unico scopo è quello di rendere omaggio ad una grande modello d’ispirazione, che tanto dona con le parole lasciate in eredità alla storia del territorio e al tesoro più grande che le generazioni future dovrebbero far fruttare: il rispetto.  

---O---

Signor Rey, ai suoi tempi l’alpinista professionista non esisteva, chi tentava le vetta aveva più o meno la preparazione che hanno al giorno d’oggi taluni amatori. Ma chi è questo genere di alpinista? Un super uomo che ha un fisico d’acciaio e una ferrea e inscalfibile volontà?    

G.REY: “L’alpinista non è di ferro; un momento di debolezza fisica può capitare ad ognuno, anche alle guide. Se l’alpinista non fosse un uomo fragile, non avrebbe il sentimento della durezza della montagna, non godrebbe del contrasto che sgorga dalla coscienza della disproporzione delle proprie forze con la forza infinita che ha da vincere, contrasto che è forse una delle ragioni più profonde della sua passione”.  

Bene, direi che è estremamente condivisibile, ma quindi proprio in natura di questa coscienza d’inferiorità verso le montagne, il solo tentativo nell’affrontare questa lotta è, a suo avviso, solo mosso da un’immane incoscienza e alterigia o c’è altro, di più profondo e al contempo di celata evidenza?   

G.REY: “Quando l’uomo fiuta il rischio, diventa uomo per davvero con quanto esso ha di più primitivamente bello e valente; coraggiosi come un piccolo animale che difende la sua vita da un mostro cento volte più grande e più forte di lui; impassibile come doveva essere il primo uomo che traeva la vita fra le difficoltà della natura, alla guisa delle fiere, che soffriva e godeva, ma forse non piangeva né rideva ancora. In questa lotta stretta col monte il malato si rassegna e si accascia; il sano si compiace dell’aspra voluttà della contesa, e, quando giunge a liberarsi delle strette del mostro, respira come non ha mai respirato in vita sua”.

Meraviglioso paragone, ovviamente gli uomini primitivi non disponevano di strumenti specifici per attività di questo tipo. Com’è il suo rapporto con l’accessorio alpinistico?

G.REY: “E’ della piccozza come di certi amici: desiderate averli al fianco nel momento del bisogno; passato questo, alla prima noia che vi danno, vi riescono importuni, e, nel corto egoismo umano, non pensate che fra breve potranno giovare ancora”.

Garbato e fine umorismo, immagino che l’ironia sia una componente fondamentale nella resistenza psicologica. Nei tempi moderni le vie o meglio i “problemi irrisolti” non sono più così tanti come ai sui tempi, quindi numerose sono le cosi dette “ripetizioni”. Il valore di una ripetizione è a parer suo altrettanto soddisfacente rispetto all’apertura di una via?

G.REY: “La vera virtù è del primo che la compie; ma esso stesso, nel compierla, la rende accessibile ad altri epperò meno alta. Alle ansie, allo slancio audace dell’artista che crea, si sostituisce la calma e la sicurezza servile di chi copia. E se avviene che taluno rinnovi l’opera, ancorché portandola a più perfetto compimento non avrà né il merito né le gioie che toccarono al primo”.

Quindi se comprendo appieno il senso, la montagna è sopra tutto per gli audaci che cercano una certa unicità nell’approccio alla roccia e al ghiaccio. Ma l’ambiente montano è limitante alle esclusività alpinistiche o è affabile ad altre tipologie umane?

G.REY: “Ma la montagna è così benefica e grande che tutti accoglie quelli che si volgono a lei, e a tutti giova: agli scienziati che ne fanno oggetto di studio; ai pittori ed ai poeti che vi ricercano un’ispirazione; ai robusti che anelano ad intense fatiche, come agli stanchi che fuggono l’afa e le noie della città per ristorarsi a questa sorgente purissima di salute fisica e morale”.

In buona sostanza la frequentazione della montagna e in special modo la pratica alpinistica sono propedeutici ad un percorso più intimo e completo della persona, è corretto?  

G.REY: “L’alpinismo è cosa umana, naturale, come è naturale il camminare, il guardare, il pensare; umana come tutte le passioni, con le sue debolezze, i suoi slanci, le sue gioie e i suoi disinganni, e, come altre passioni, esalta e matura l’animo umano”.

Qual è, a suo parere, il valore più grande nel passare del tempo in un ambiente montano?  

G.REY: “Vi sono dei giorni in cui viene di destarsi di buon umore, in cui ci si sente più sani e più valenti, non si dubita di noi stessi, le cose più difficili ci sembrano facili, e quasi si desidera di incontrare le difficoltà pel piacere di superarle. Sono giorni eccezionali, ma certamente più frequenti in montagna che in città”.

Penso che in quello che dice molti di noi potrebbero confermare immedesimandosi in quel senso di armonia che si prova quando si percepisce l’esistenza di un equilibrio, sia nelle cose della natura – di cui siamo parte- ma anche nell’intangibile intimità della nostra mente. A tal proposito, un semplice visitatore cittadino cosa dovrebbe pensare nel vedere un alpinista avviarsi verso le proprie ardite sfide?

G.REY: “Per quanto in questa lotta l’animo nostro parteggi, non possiamo che ammirare quell’uomo appassionato del suo monte, come di un ideale altissimo. E’ una lotta che ricorda le giostre antiche ove per un fiore si esponeva la vita”.

Secondo Lei, nel rapporto tra l’alpinista e la montagna, è nell’uomo che permane un animo giovane come che vuole scoprire nuove prospettive, oppure è la montagna in sé che emana una energia occulta che magnetizza l’attenzione, alimentando questa profonda passione?

G.REY: “Bisogna pure che nei monti sia un fascino segreto perché essi ci attraggano a cercarvi difficoltà e fatiche sempre maggiori, e perché tanto più li amiamo quanto più ci hanno costato. Ma questi segreti l’anima giovinetta non analizza; essa va impetuosamente a ciò che l’attrae, senza domandare il perché”.

Lei è credente, ma pensa che in termini di fede, un arduo cammino e l’estasi della vetta si manifestino in ogni uomo?

G.REY: “Quassù anche lo spavaldo tace, e lo scettico non ride se vede una guida deporre l’obolo nella bussola dell’elemosine, e scoprirsi il capo nel passare davanti alla statuetta della Madonna”.

Attraverso la Sua mirabile esperienza e cultura, come potrebbe descrivere ad un neofita l’esperienza catartica del raggiungimento della vetta?  

G.REY: “Il pane che divoravo lassù aveva un sapore che non avevo mai gustato. E scopersi la gioia nuovissima, inesplicabile, di giungere sul punto culminante, ove è la vetta, ove il monte ha cessato di salire e l’animo cessa di desiderare: è una forma quasi perfetta di soddisfazione dell’istinto, quale forse la prova il filosofo che ha conquistato alfine una verità nella quale la mente sua si appaga e riposa”.

Quindi la montagna non viene idealizzata come una divinità, ma piuttosto come un nemico da affrontare o, meglio ancora, un amico con cui crescere a conoscersi nel viaggio della vita?

G.REY: “Il monte vive, come gli uomini, dalla sua vita che lentamente lo consuma, e di questa vita dà tratto tratto pericolosi segni”.

Come vedevate, ai vostri tempi, le imprese o i tentativi degli alpinisti di metà dell’ottocento e cosa consiglierebbe agli alpinisti moderni che, magari non conoscendo la storia di un monte o di un alpinista, reputano – ma solo con l’utilizzo di attrezzature moderne – una via classica non difficile, se non addirittura semplice?  

G.REY: “E’ nostro dovere conservare il culto poetico del passato dell’alpinismo. Crawford Grove, il secondo alpinista che salì al Cervino, ha lasciato scritto: << Possa la giovane generazione, che esulta in facili vittorie sul monte altre volte temuto, non guardare con disdegno al progresso dei pionieri delle alpi >>”.

Posso chiederLe di dare un prezioso suggerimento, in base al suo vissuto, verso tutte quelle persone che usualmente approcciano o hanno intenzione di frequentare in un futuro l’ambiente montano?

G.REY: “Provai gioie troppo grandi per poterle descrivere, e dolori tali che non ho ardito di parlarne. Con questi sensi nell’animo io dico: Salite ai monti, ma ricordate che coraggio e vigore nulla contano senza la prudenza; ricordate che la negligenza di un solo istante può distruggere la felicità di tutta una vita. Non fate nulla con la fretta; guardate bene ad ogni passo, e fin dal principio pensate quale può essere il fine”.

Un’ultima domanda prima di accomiatarci e ringraziarla per la Sua preziosa testimonianza. Come descriverebbe, a chi non è avvezzo alle cime, i benefici che apporta l’esperienza montana e se è vero che alcuni sentimenti vengono addirittura amplificati e percepiti nella loro pienezza?  

G.REY: “Vorrei che gli increduli provassero il benefico effetto che produce in noi una grande salita. Allora ci sembrano macchine la vanità che ingombra il nostro animo prima di partire; troviamo buoni gli agi di cui prima eravamo sazi; sentiamo di amare di più la nostra casa e la famiglia che in essa ci attende; anche noi, alpinisti, abbiamo i nostri affetti, ai quali pensiamo, nel momento del pericolo, assai più intensamente che non vi pensi altri quando vive della sua vita consueta; e, scendendo dai monti, siamo lieti di recare ai nostri cari la serenità acquisita lassù, di vederli sorriderci perché sanno che la montagna restituisce loro un figlio, un fratello, un amico più sano, più affettuoso e forte”.

L’intervista è ultimata e non posso che ringraziare nuovamente, anche se in maniera virtuale, un alpinista, uno scrittore, un maestro di vita, che con le sue testimonianze è capace ancora oggi, di tenere legati alla stessa cordata l’odierna modernità ad una passato lontano, recuperando i margini sbiaditi del ricordo e donando ai posteri il dono più ampio che l’intelletto umano possa ricevere: l’incoraggiamento verso una reale contemplazione.

Stefano Camòrs Guarda



giovedì 18 gennaio 2018

Il monte della vita 1933 (mountain's echoes)


Nell’elogiare un testo già famoso, si rischia spesso di cadere in facili retoriche o ridondanti smielate prive di valore aggiunto. Come in parete però, capita alle volte che un piccolo rischio calcolato occorre affrontarlo, ed è questo veramente il caso. Il testo in questione è Bàrnabo delle montagne, primo libro del bellunese Dino Buzzati, pubblicato nel 1933. Un libro che lessi a scuola in adolescenza, ma al tempo non mi colpì, almeno non come quando lo rilessi a vent’anni; in quel momento scattò una vera e propria folgorazione. Questo è un libro che ha, a mio avviso, molteplici sfaccettature e la sua lettura può essere considerata come una guida verso un sentiero strano, quello della condizione umana. L’ambientazione è perlopiù montana e le radici, il ricordo, forse a tratti anche la malinconia di luoghi e di età non più raggiungibili, emergono come rivoli cristallini, resi ancora più preziosi perché in fase di prosciugamento. Le difficoltà, non solo nelle condizioni di vita, ma anche nei rapporti umani, dove se un errore viene brutalmente perseguito, ma alla fine perdonato: la viltà no. La descrizione di un mondo dove la paura esiste, è tangibile e si materializza quotidianamente ed è un dovere il tentare di affrontarla; e se non sconfitta almeno respinta. Una battaglia esterna, fisica, drammatica che va combattuta, non ci si può permettere di esimersi dalla lotta. Una guerra che parte internamente all’animo umano, che deve svestire i panni della fanciullezza e accettare ogni genere di conseguenza il contrastare le vicende della vita possa arrecare. La storia raccontata assume le sembianze di un’epopea della civiltà, che tenta di lasciare i luoghi più impervi per raggiungere una maggiore semplicità dell’esistenza; eppure l’istinto, irrazionalmente, sente il richiamo e la mancanza delle proprie radici culturali. Dopo quasi cento anni dalla pubblicazione le parole ancora esplodono di attualità, nel raccontare la nostalgia, il bruciante rimpianto, dell’abbandono forzato della terra natia verso luoghi ove trovare un destino, non migliore o peggiore, diverso. La crudele consapevolezza di non essere stati all’altezza della situazione, di aver deluso qualcuno che si fidava di noi, e di averlo fatto per mancanza di coraggio. Lo sconforto, l’emarginazione e l’abbandono. La vergogna della debolezza di essere solo un uomo, della propria fragilità. Poi però appare in un cielo nero una stella, la scintilla della speranza, nell’attesa meditabonda di una seconda occasione e un nuovo ulteriore timore, parallelo: quello di non essere in grado di affrontare neanche una futura sfida. La corrosiva malinconia per i propri luoghi osservati in lontananza, ma ancora vivi e scalpitanti nel proprio cuore. Questa è la crescita, la catarsi dell’uomo verso l’ignoto futuro. Toccante è la caduta dell’orgoglio, le parole di un vecchio amico che nonostante tutto ricorda anche il buono che c’è stato. La presa d’atto che esiste un tempo per il ritorno. Quasi senza accorgersene, il bagaglio di virtù e di errori si è mescolato, fuso insieme, ed è diventato esperienza, forse addirittura saggezza. Solo allora lo sguardo non teme più il confronto e non si abbassa verso il terreno. Osserva dritto in faccia, allunga il suo orizzonte verso una luce che diventa costantemente sempre più tenue. La seconda occasione, quella del riscatto, della pacificazione con il proprio passato, arriva e viene affrontata senza indugi, ma al contempo due attori si affacciano nuovi al palcoscenico della vita: l’umiltà e la compassione. Ecco che la conoscenza, come la luce del tramonto cambia il panorama, emergono sfumature, sembra variare la prospettiva e le logiche. L’accettazione del proprio vissuto ad una più ragionevole sentenza.
Infine la decisione di vivere nella solitudine, nell’abbraccio dei ricordi e della materna terra d’origine. Il valore della maturità personale, del silenzio, della gratitudine verso ciò che è, che è stato, buono o doloroso, bello o brutto. Un ultimo pensiero prima della fine definitiva, il riappacificarsi con sé stessi, perdonare e perdonarsi, è l’unico modo per abbracciare il mondo nella sua gelida equità.  
E’ indubbiamente un racconto che non può lasciare indifferenti, se si trova una personale chiave di lettura diventa una sfumatura di sé stessi. Il brano è teso e immediato, brillante nella narrazione e nel generare immedesimazione. Sicuramente un libro fondamentale per le persone di una fascia verso la maggiore età, perché comprendano l’importanza di conoscere chi sono, qual è la propria terra e il proprio passato, e con quella consapevolezza affrontare il viaggio verso quella terra oscura chiamata futuro. Un testo che andrebbe riletto in età più adulta, per ricordare la responsabilità che si ha nel doversi impegnare per la propria crescita personale, ma che essa è strettamente legata a quei sentimenti di umiltà, rispetto e armonia verso tutti gli altri elementi del nostro microcosmo. Un racconto che accompagna il percorso del sole fino dietro il profilo dei monti e lascia il ricordo vivo dei suoi raggi, nel fresco incedere della sera.


Stefano Camòrs Guarda             

martedì 16 gennaio 2018

Monte Cervino 1903 (mountain's echoes)


Leggere un libro è sempre un’esperienza, ma imbattersi in un libro scritto molto tempo prima della propria nascita può risultare davvero un’avventura impareggiabile e un vero e proprio viaggio nel tempo. E’ stato così avvicinandomi al libro “Il Monte Cervino” di Guido Rey, finito di scrivere nel 1903 (data riportata al termine dell’ultimo brano), anche se la data di pubblicazione del libro in questione in mio possesso è relativa alla seconda edizione del 1926. Colpisce da subito la mole del tomo e la fattura, sinonimo di un periodo storico in cui i libri erano ancora il fulcro culturale di una generazione. La parola scritta e la cultura erano ancora viste come un valore assoluto dal quale era impensabile rinunciare, anche se ancora prescindeva dal ceto sociale e dalla disponibilità economica. Il libro era visto anche come patrimonio di famiglia e questo aggiungeva valore economico al prestigio culturale, era qualcosa che veniva inserito nel blasone famigliare, nella dote della propria casata, che andava a comporre lo spessore del proprio cognome. Insomma come ogni oggetto importante doveva essere fatto alla regola dell’arte e curato in ogni minimo dettaglio. Era un così detto status symbol portatile; oggi lo è il telefono cellulare, e questo dovrebbe già farci riflettere sulla direzione che ha preso la nostra cultura.

Ma torniamo al libro in questione, un libro che pesa più di un chilo e ha dimensioni che sono più da leggio che non da tenere tra le mani. La sotto copertina rigida in tessuto verde con la sola scritta di colore oro, simbolo anche in questo caso di un ceto sociale che doveva dimostrare la capacità di mantenere la sua lucidità, fierezza e serietà in ogni occasione. La copertina non colpisce l’attenzione e anche in questo frangente c’è la dimostrazione di come questo testo non fosse destinato, o quanto meno nelle intenzioni dell’editore, non ci fosse comunque una volontà di acquisire, catturare l’attenzione del lettore comune (che probabilmente ancora non esisteva, così come lo concepiamo oggi). Il prezzo, due lire, e la fattura già erano l’indizio che quell’oggetto era prima di tutto un livello che poteva essere accessibile a partire da una certa borghesia in su.

Un altro suggerimento che fa risaltare la volontà di un prodotto destinato a durare nel tempo è lo spessore della carta utilizzata nella stampa. La finezza delle tavole, separate dalle pagine del libro e poi incollate (a mano) all’interno di appositi riquadri, sinonimo sempre più di un valore aggiunto volutamente concepito.
Non stupisce la prefazione di Edmondo de Amicis, in quanto è abbastanza nota l’amicizia che intercorreva tra i due e la frequentazione montana che ebbero. L’affetto poi che s’instaurò tra Guido Rey e il figlio di Edmondo, Ugo de Amicis, divenuti poi compagni di cordata in molte ascensioni.
Il contenuto, ovviamente con le dovute limitazioni tecnologiche di quel tempo, è davvero interessante in quanto permette di capire la curiosità, i timori, le superstizioni, ma soprattutto la forgia con cui quelle persone erano state formate e pronte ad affrontare insidie di una difficoltà che si moltiplicava all’ennesima potenza rispetto a ciò che potrebbe essere affrontandola con le conoscenze ed attrezzature di oggi. Pionieri veri, che affrontavano la morte e la montagna non considerandola in un alone di mito, ma rendendo l’idea di quale fosse un reale concetto di rispetto in quella generazione. La natura e le montagne, il Cervino nello specifico, venivano viste come un dono divino concesso all’uomo inizialmente per colmare lo sguardo delle genti di città. Uno strumento catalizzatore di letterati, studiosi e poeti, motivante e ispiratore. Un ideale di purezza e felicità che poi venne disatteso da quelli che delle montagne cominciarono a risalirne i pendii e si trovarono faccia a faccia con la vera severità dell’ambiente e la flebile rassegnazione delle genti indigene. Eppure nonostante l’indigenza e l’immane fatica nel reperire ogni genere di prima necessità, i nativi di queste terre alte serbano nel cuore la propria terra: “E fra le cose oneste che i montanari hanno insegnato agli uomini di città havvi questo profondo amore al luogo natìo; per essi il loro paesello è il centro del mondo. Non certo noi, cittadini, sognamo le nostre comode case o i fastosi edifizi e il frastuono delle vie con l’infinito desiderio con cui il montanaro lontano dalla patria sogna il suo tugurio, il piccolo campanile bianco, la pace della sua valle e le sue canzoni”.
Quello che maggiormente coglie impreparato è leggere l’Italiano utilizzato. Quasi un’altra lingua in alcuni aspetti. Un lessico sempre garbato, dando del Lei al lettore. Una distanza tra il narratore e il fruitore che è indicativa dell’estremo rispetto e di quella forte “etichetta” che era usuale in un epoca forse più arretrata della nostra attuale ma, a mio avviso, meno caotica e lasciva. Anni in cui pareva sgarbata l’autocelebrazione eccessiva, perché simbolo di una scarsa nobiltà d’animo; ecco perché anche davanti a imprese assai ardue, difficilmente si attribuisce il raggiungimento dell’impresa alle proprie capacità, ma più diffusamente al supporto di un fantomatico “destino” o ad una più motivante presenza su di sé dello sguardo di Dio. Quello che è certo nelle loro menti è la viva convinzione che ogni meraviglia del creato sia state generata direttamente dalle mani di Dio; e in questo senso la svettante figura del Cervino suggerisce all’autore i segni di spirituali architetture artistiche e ove le mani dello scultore si sovrappongono e diventano i fenomeni atmosferici: “In principio il monte era rinchiuso entro un’immensa giogaia, un’opera d’arte nel blocco rude di marmo. L’Artefice dovette lavorare centinaia d’anni a rilevarne le mirabili forme. Non erano esseri attorno che plaudissero; il Creatore solitario e abile, continuava a scolpire l’opera sua col lavoro tenace dell’amore e s’affretta, pur che essa sorga bella e grande. Col gelo e colle nevi, coi venti  e col sole affinava il monumento; incideva le scannellature su le pareti, frastagliava il coronamento in merlature gigantesche, la cuspide che s’innalzava fino al cielo…..”.   
Alcune frasi che si incontrano su questi sentieri di parole strappano un sorriso, a causa dell’utilizzo di alcune espressioni o forme verbali che oggi non si usano più. Uso del linguaggio del tempo, anche se decisamente di una classe generalmente più forbita della media e oggi radicalmente desueto, ma che mantiene in che le ascolta o le legge, una musicalità degna di un brano di poesia.
Questo è solo un preambolo a ciò che nella realtà il libro svela, ovvero le gesta e i tentativi della salita al monte da ogni sua parte per arrivarne in cima per primi. Significative e impareggiabili le descrizioni di alpeggi e montanari, delle condizioni di vita e di lavoro delle genti di montagna a quel tempo viste con gli occhi della cittadina borghesia benestante. Impagabile resoconto delle motivazioni che spingevano uomini a rischiare la propria vita per raggiungere la cima, fossero queste di natura scientifica, spirituale o politica, nel tentativo di aumentare il prestigio di un blasone nobiliare facendo sventolare una bandiera su questa aguzza terra di conquista.  
Il salto, l’abisso che separa l’oggi al mondo raccontato in quelle righe, sembra incolmabile e vertiginoso. Eppure molti di noi hanno conosciuto, parlato, abbracciato quelle persone. Centoventi, centotrent’anni sono due/tre generazioni che si accavallano. Ciò che forse non ci aspettavamo era la velocità con cui il progresso avrebbe cancellato e resa obsoleta quella civiltà. Il dubbio è forse il lascito più grande che questo libro ci omaggia. Il sospetto, immedesimandosi nell’esperienza di quegli uomini, che nell’evoluzione della mente si sia infilata l’insidia del distacco dalla realtà, della consapevolezza della nostra condizione e dimensione, della debolezza dell’uomo davanti alla natura e al tempo. Questo se non davanti all’eccesso, al baratro più orrendo o ad inarrivabile maestosità: come le pieghe di roccia, come le righe di un libro che vale la pena più che di leggere, di vivere.  

Stefano Camòrs Guarda


giovedì 11 gennaio 2018

Una voce aliena


Sono entrato nell’orbita di questo pianeta da oltre quarant’anni. All’inizio mi ero accostato perché all’apparenza le somiglianze con il mio erano davvero impressionanti, almeno dal punto di vista fisico. Sono un esploratore spaziale, mandato nel cosmo per scopi di studio preliminare, in vista di futuri contatti. Il progetto a cui lavoro prevede una fase di studio lunga tutta la durata della mia vita, poi i sensori all’interno della capsula rileveranno la cessazione delle mie attività vitali e porteranno l’intero dispositivo verso la disintegrazione totale. A cadenze prestabilite, micro impulsi e nano sonde vengono lanciate dal mio modulo in maniera tale da consentire la trasmissione dei dati al mio mondo, di cui ormai, non ricordo nemmeno quanto lontano sia. Ho imparato a coesistere con la solitudine totale e la mia mente ha creato per me un alter ego. Parlo regolarmente con lui e ricevo risposte; ormai davvero mi sembra di essere in due a bordo. Passo il tempo a spiare la vita degli esseri sotto di me, all’interno della mia astronave. Nessuno si sognerebbe mai di venire a cercarmi, il mio modulo dall’esterno appare come una specie di asteroide, materia spaziale ad una distanza tale da non intaccare l’orbita di tutti quegli aggeggi che ruotano intoro a questo pianeta. Sulla sua superficie coesistono specie diverse, alcune paiono leggermente più evolute, poi però, ad uno studio più approfondito, emergono un certo numero di debolezze sistemiche, intrinseche all’indole di questi esseri che li rendono estremamente prevedibili e vulnerabili. Questo sicuramente è un punto a nostro vantaggio in una futura colonizzazione. Considerando la totalità degli esseri, quelli più semplici, talvolta unicellulari, saranno i più difficili da eliminare. Hanno una formidabile capacità di adattamento e resistenza ad ogni modificazione ambientale. Quelli potenzialmente più evoluti, invece, sono in realtà i più deboli e fragili, sia in termini intellettivi che in quelli fisici. Li ho osservati a lungo e sebbene in alcune circostanze ispirino una certa simpatia, nella maggior parte dei casi un’aggressività irrazionale e un’indole autodistruttiva li porta a generare repulsione in chi li osserva. Logiche brillanti hanno portato loro ad avere tecnologie superiori alla media delle altre specie, ma c’è una cosa che non sfugge ad un osservatore esterno: nelle fasi evolutive la mancanza di equilibrio, di equità, di valutazione è andata progressivamente atrofizzandosi, tanto che le risorse del pianeta vengono esaurite nella costruzione di cose che non hanno alcun fine di miglioramento o di sopravvivenza. Ogni spinta esistenziale non è baricentrata in un fulcro comune bensì, queste forme di vita, vengono attirate e respinte da svariati nuclei di forze spesso in contrasto nei loro scopi. Registro pericolosi accumuli di energia non governata, ma sempre e solo reindirizzata. Non esistono meccanismi di resistenza capaci di dissipare questo eccesso magnetico. Il sovraffollamento della specie dominante sta diventando il vero innesco di autodistruzione. Tra breve tempo potremmo assistere ad una fase di autopulizia, se non addirittura all’estinzione. La componente più complessa, quella mentale, non è ancora arrivata ad un punto di equilibrio tale da comprendere le necessità indispensabili della specie e preservarle da ogni altro spreco. In realtà, si è sviluppata una reazione esattamente opposta e irragionevole nella massa, dove addirittura i bisogni primari vengono sacrificati per effimeri brevi momenti di soddisfazione fasulla. Inizialmente avevamo pensato ad un approccio pacifico e interattivo verso di loro, ma al nostro consiglio ho indicato di non procedere in tal senso. Da questo punto di vista sono pericolosi. Non saprebbero come gestire l’afflusso di tutte le nostre conoscenze decisamente superiori. Da qualche anno ormai percepisco sempre più chiaramente i segni di una involuzione culturale a favore del risveglio d’istinti primordiali che a poco serviranno se non da accelerante nel processo di annientamento. Forse sarebbe il caso che definitivamente dichiarassi questo pianeta non colonizzabile e tornassi a casa. Ma da chi? Anche il mio pianeta potrebbe essere cambiato. Io invio solo notizie, ma non ne ricevo alcuna. E se non esistesse neppure più? Invierò un ultimo messaggio dicendo che sto per sbarcare sul pianeta per disperdermi tra loro. Se entro un determinato periodo non riceverò alcun messaggio dalla mia gente, allora scenderò e mi mescolerò a quella specie, attendendo con loro la fine. Mi sento stanco e abbattuto, forse osservandoli per tutto questo tempo ho imparato da loro negatività non presenti da noi. Se tornassi indietro potrei infettare il mio mondo con questi pensieri virali. Non ho scelta, devo scendere e assumere la loro forma in una qualche maniera. Addio pianeta |((^|\\- non ci vedremo più, sto scendendo sul pianeta terra, sotto forma di loro cucciolo, un cucciolo d’uomo. Chissà se mai riuscirò ad adattarmi alla loro follia. Userò le iniziali del mio nome per formarne uno da loro accettabile. Chissà se ascolteranno il timbro della mia voce, ho perfino imparato a usare quel pezzo di legno con le corde che emettono suoni. Passo e chiudo, addio da Esploratore Livrenius Vinziesus Ixwing Sqxuol.       


Stefano Camòrs Guarda  

lunedì 8 gennaio 2018

Racconti di seconda classe


Se non fosse nota alla mia mente l’impossibilità di cambiare canale, penserei di trovarmi davanti ad un maxischermo. Invece è solo il finestrino di un treno. L’incalzare d’immagini al di fuori è ipnotico, rassicurante. Tutto ciò che accade al passaggio è intangibile al mio essere. L’avvicinarsi alle città è sempre uguale, la periferia delle città e quasi sempre identica. I palazzi mi mostrano la schiena, perché la ferrovia non è un gran bel vedere; anche quei palazzi degli anni sessanta e settanta non sono un panorama esaltante. Costruzioni fatte per dare un tetto ai molti in arrivo, con pochi soldi e tanta voglia di lavorare, in quelle aree d’Italia dove le fabbriche fumavano rabbiose. L’estetica non veniva neppure considerata, c’era la necessità dell’essenza, della sostanza più spartana. Oggi non avrebbero più senso costruzioni del genere, se non per il fatto che l’edilizia a basso costo è diventata per la maggior parte delle persone una forzatura, l’unica proposta senza alternative. Qualche panno steso sui balconi lascia intuire le caratteristiche peculiari degli occupanti. Colori sgargianti, forse africa. Vestiti ricamati all’eccesso, probabile sud-America. Lenzuola bianche e abiti neri qualche vedova inghiottita dalla globalizzazione. Le vorticose realtà produttive, divenute scheletri dai vetri infranti e dalle mura tatuate dagli spray colorati. Sono passati cinquant’anni, sembrano cinquecento. Nei pochi tratti di campagna mi rendo conto che invece le differenze ci sono, nella natura sono molto più evidenti che nel cemento. Qui posso fissare le persone senza provare o far provare disagio, le figure sono attori ed io per loro un fantasma ingurgitato da un metallico lombrico. Non sento i profumi dell’aria, né provo l’ebbrezza degli eventi atmosferici sulla pelle. Solo immagini, mute, rapide come i secondi che passano. Intorno a me, sui sedili del treno, vivacchia un variegato microcosmo di entità astratte, perfetti sconosciuti. Profumo di vita lontana nelle ondate dolciastre che arrivano da donne scure come la notte; mi pare si chiami patchuli quell’intensa essenza. Acre odore di sudore mescolato a quello del disinfettante usato nella pulizia del vagone, in aggiunta a quello ferroso delle rotaie. Ronzio di musiche ascoltate ad alto volume, ma con le cuffiette, ticchettio di dita sulle tastiere di qualche computer portatile e suoni incomprensibili, parole forse, di una lingua e cultura di cui ignoro quasi tutto. Vorrei chiedere a tutti i presenti se sanno dove stanno andando e soprattutto perché lo stanno facendo. Se è una consuetudine o se l’inizio di un’avventura. Probabilmente nessuno lo sa con certezza e, come me, si trova in quel posto ed in quel momento senza averlo desiderato e senza averlo scelto davvero. E’ andata così, e non me lo sarei mai aspettato quando ancora credevo nei sogni. La luce fuori dai vetri si fa più fioca, avanza un lento imbrunire in cui cominciano ad annegare i profili e le sagome degli edifici e dei terreni solcati da questa nave di terra. Tra poco vedrò poco o nulla fuori e le luci interne faranno in modo che dal vetro si rifletta la mia immagine. Il timore ogni volta è quello di non riconoscersi più, di vedersi invecchiati improvvisamente o diversi da come ci eravamo immaginati di essere. E’ un viaggio inevitabile, ognuno, in ogni istante, abbandona un qualcosa e s’inoltra, avventura in un qualcosa d’altro. Anche i pensieri che ronzano insistenti e fastidiosi, mi abbandoneranno appena scesi da questo carro bestiame trainato dalla locomotiva. Appena sceso, diverrò parte del paesaggio, attore nel teatro per altri viaggiatori, che distrattamente osserveranno il mio incedere deciso verso un più familiare dove. Lontano da me tengo la ricerca di un senso, che non c’è, se non nel movimento eterno delle persone attorno alla loro vita, alla terra attorno al suo asse, al tempo intorno alle congetture dei filosofi. Mi allontano dalla stazione e sbiadisco la presenza nell’oscurità. Domani tornerò sullo stesso treno o un altro, con gli stessi paesaggi e persone, oppure altre. Solo i pensieri saranno sempre gli stessi, li porto nella borsa con me, induriti e lisciati dal continuo contatto con la mente, come le rotaie di questo sentiero senza direzione.  

Stefano Camòrs Guarda

venerdì 5 gennaio 2018

Cento anni appena

Cento anni fa, nel 1918, la prima guerra mondiale diventava storia. Sembrano passate ere geologiche e le battaglie combattute assumono nel tempo l'evanescenza del mito, interponendo distanze tra il sangue e le righe di un testo scolastico. I campi di quelle battaglie sono invecchiati, ma non hanno potuto morire come i reduci, le trincee incolmabili rughe, testamento di afflizione. Il ricordo, la conoscenza, devono essere vessillo, non di nazionalismo, ma di umana pietà. 



Nel ricordo degli uomini, dei ragazzi, che nulla c'entravano con le lotte di confine, ma che quel confine l'hanno segnato con il proprio sangue.

Trincea     

Gli anni non sono poi molti
ma mi vestono d'anziano.
Appesantiscono un zaino affardellato,
liso da fatica e paure.
Non ho capriole di fumo
in cui smarrire i pensieri,
nel tepore di una spessa coperta
affievolisce lo sguardo, il ricordo.
Il freddo delle notti all'aperto,
gli occhi supplicanti del dolore,
la soffocante, comoda, indifferenza.
Nella tormenta mulinano alibi,
cristallizza la speranza.
Ho smarrito le sagome dei monti
in quel bracere spento.



Stefano Camòrs Guarda