giovedì 30 novembre 2017

Il volto della mia terra


Poi capita, senza che lo avessi previsto, che incontri un volto sulla tua strada, che ti cambia la prospettiva. Non un viso reale, ma una semplice fotografia e neanche di ottima qualità. Una foto ingiallita, un po' sgranata (perchè antica, di fine ottocento) e rovinata sui bordi, eppure capace di bloccarti, di farti perdere il fiato e la ragione. Un volto di donna o forse il vero volto della mia terra. 
Il bianco e l'ordine di quei capelli, che mi indicano la purezza delle nevi là in alto, appena più alte della mente, dove solo il cuore è il vero benvenuto. Un bianco protetto da un velo, come riparo dal sole e per un atavico pudore, rispetto verso ogni cosa ci circondi. Come i nostri ghiacciai quel rispetto si sta sciogliendo al sole della rilassatezza, della superficialità. Quel velo smarrito in una soffitta polverosa. 
Il nero di quegli abiti lisi ma disgnitosi. Abiti scuri che hanno assorbito il fumo delle migliaia di notti passate al cospetto d'una stufa, sgranado rosari in preghiera, perchè dopo l'immane fatica che l'uomo può esaurire rimane solo Dio. La semplicità dei drappi di stoffa che trasuda l'essenza delle cose, la funzione per cui furono concepite e mai un effimero e inutile apparire. 
Le mani stanche e scarne, ma forti. Nonostante il patimento ancorate alla vita e alla fede, da far passare tra le dita in grani di legno, perchè la vita, il proprio credo è materia: si tocca nei campi, si tocca nella preghiera. Fede che è innanzitutto il ringraziamento per il poco che si ha, del legame con la natura. La richiesta al divino che si possa mantenere quello che si è conquistato, quasi mai la bramosia che venga concesso più del necessario.     
Poi arrivi ad osservare il volto di quella donna e ti perdi nella storia della tua terra. La pelle della fronte, aggrottata dalle mille difficoltà, intarsiata nei solchi lasciati dall'aratro del tempo. Un viso serio, ma non severo, emerge una bontà materna che sfugge dal condizionamento della miseria; perchè l'amore di una madre non concede la sconfitta nemmeno davanti alla fame o alla carestia, alla morte. Un volto usato, che ha dato più di quanto era lecito chiedere. Mai però si è risparmiato, perchè è nel poco che è immensa la generosità. Un dipinto in cui è rappresentato un paesaggio, un panorama, che congiunge la fisicità della terra allo scorrere del tempo.
Ma sono gli occhi ad ammutolire il viandante che là dentro viene imprigionato. Due lanterne nella nebbia, due piccole scheggie di brace. Rappresentano l'orgoglio di aver combattuto sempre, di essersi sempre rialzati, anche se feriti mortalmente dal destino. Occhi onesti, sinceri di chi ha amato la sua terra e la sua vita, nonostante tutto. Due spicchi di un cielo plumbeo, perchè sta terminando anche l'autunno e l'inverno bisbiglia il suo nome dietro la porta. Occhi tristi, non per sé stessa, ma per il peso nel cuore che vede la sua terra ignorata, ferita, stuprata. Quella terra che ha assorbito i suoi sogni, le preghiere e il suo sudore, viene distrutta senza rimorso alcuno dal sangue del suo sangue. Un paesaggio, quello in cui è avvenuta la sua vita, che non esisterà più. A parte lei, nessuno ricorderà nulla di ciò che era prima. Allora quel legame, nel ricordo, sarà ancora più forte e insieme andranno a popolare la terra dei dimenticati; almeno fino a che qualcun'altro si fermi davanti ad una vecchia e semplice foto, che da un volto alla propria terra e si conceda un istante di pura immersione, nelle radici del suo animo.

Occhi tristi    

Occhi tristi è delicata
come l'aria, al cambio di stagione
quando viene il magone.
Riservata come le ombre
che d'autunno nel sottobosco
fan sembrare tutto più cupo, fosco.
Confusa siede
su quella panchina, dimenticata,
anonima come le foglie, ignorata.
Osserva un cielo 
che non le appartiene,
rallenta il sangue nelle sue vene.
Solo il silenzio
o un tenue frusciare,
la vita alla soglia, la vuol salutare.
Scende la sera 
che tutto concilia,
non un addio, ma quieta vigilia.
Passa di nuovo
lieve la brezza,
ricorderai sempre la dolce carezza.


Stefano Camòrs Guarda
#ascuoladiumiltà 

mercoledì 22 novembre 2017

Il custode del tempo

  Quando arrivi a Cicogna capisci che lì la Val Grande comincia davvero. Gente ne vedi poca, soprattutto se ci vai nei giorni della settimana, quando i pochi residenti devono scendere per andare a lavorare. Capita allora che costeggi il cimitero e segui lo sterrato fino alla piazzola elicottero; poi da laggiù solo sentieri percorribili a piedi. Da quella parte vai verso gli alpeggi di Montuzzo, e più avanti Velina. Borghi fantasma, per lo più abbandonati e diroccati, solo qualche sparuta baita di appassionati è stata rimessa in condizione di agibilità. Lì è scomodo. Scomodo arrivarci, ci vuole quasi un’ora, scomodo rimanerci, difficilmente si ha acqua corrente e luce. Però lì è vero, aspro, nulla di addomesticato. Il nostro istinto questo stato lo percepisce e per tutto il tempo rimane in balia del timore, della reverenza, quasi dell’inquietudine. Poi si finisce per innamorarsene. La natura è la padrona e l’uomo è ospite, neanche tanto desiderato. Te lo fa capire, lo fa intendere con superiore distacco e indifferenza. Laggiù o sei capace d’arrangiarti o sei finito. In quel luogo conobbi un uomo, uno che sapeva cosa e come fare. Una persona che aveva scelto quel luogo e quel luogo aveva accettato lui.
   Gianfranco, era della Valtellina o più o meno di quelle parti, mi raccontò lui un giorno all’alpe velina, mangiando del salamino di capra selvatica. Era scalzo, con le piante dei piedi che parevano suolate di gomma vibram, e mi parlava con semplicità e lucidità. La solitudine quotidiana, interrotta dalle sporadiche visite, gli regalavano scorci di una vita lontana, che aveva scelto di abbandonare. Una vita mai rimpianta. Lo rincontrai altre volte, quando aveva sistemato una baita nell’alpeggio di Montuzzo, per passarci la stagione invernale. Quel giorno eravamo soli e mi raccontò la sua storia.
   Passò l’infanzia in un collegio che pareva più un orfanotrofio. In realtà una madre l’aveva e le voleva bene, ma abbandonati dal padre, la madre non potendolo mantenere dovette darlo in affido ad un Istituto. Le regole erano davvero rigide e la libertà del suo spirito poco si addiceva a quell’impronta educativa. Appena poté abbandonare quel posto, lo lasciò e partì in cerca del suo destino. Fece i lavori più svariati e si pagò la patente per la conduzione degli autobus, con la quale trovò lavoro nel paese di Sesto Calende come conduttore. La domanda più spontanea, sicuramente anche la meno originale che potessi fare, fu come fosse finito a fare l’eremita in Val Grande. Con un sorriso compiaciuto, mi rispose di avere sempre sentito che la modernità in cui viveva, in realtà non gli apparteneva. Si sentiva disadattato, sapeva di non essere del tutto convenzionale, sia nei modi di fare che di pensare. Aveva una profonda passione e rispetto per la natura, e quando alcuni colleghi gli fecero conoscere la Val Grande rimase ammaliato.
   Un giorno mentre stava guidando il bus, un ragazzino gettò dei rifiuti dal finestrino. Gianfri, se ne accorse e fermò il bus. Andò vicino al ragazzo e con la delicatezza e gentilezza che lo contraddistingueva, gli chiese di scendere e raccogliere ciò che aveva gettato a terra. In quel momento, non solo fu schernito dal ragazzo in questione, ma anche minacciato e insultato da tutti quelli che erano sul bus.  Ricordo ancora la frase lapidaria che seguì - in quell’attimo capì che quello non era più il mio mondo. Spensi l’autobus e lo lasciai lì, con tutti sopra che si chiedevano cosa avevo in mente. Io semplicemente scesi e a piedi raggiunsi il comune, dove formalizzai le mia dimissioni. Avevo deciso di venire a stare da solo qui su.
   Da lì Gianfri, diventò l’eremita della Val Grande, l’uomo che a piedi seguiva gli spostamenti di daini, cervi e cinghiali. Non era vegano, vegetariano o altro. Sicuramente non carnivoro. Si nutriva, diceva - di ciò che il bosco offriva. Molti lo hanno conosciuto e molti lo hanno avuto come compagno di cammino. Aveva un suo particolare carisma e alcuni avrebbero voluto specularci sopra. Mi raccontò che una persona, una volta, venne a dirgli che volevano fosse ospite del Maurizio Costanzo Show. Lui rispose, senza cattiveria o astio, che per lui non c’erano problemi, ma che se Costanzo voleva parlargli sarebbe dovuto venire lui in Val Grande.
   Questa breve storia, veritiera o forse no (poco importa) non vuole creare un mito, ma solo ricordare una persona speciale che mi ha fatto molto riflettere. Prima di salutarci per il mio ritorno a casa, accompagnandomi a piedi durante il cammino, mi disse: - La Val Grande non l’abbandoni mai, se l’hai nel cuore è sempre con te. Qui io mi sento la persona più ricca del mondo. La persona più ricca è quella che non corre il rischio di perdere niente. Un giorno io chiuderò gli occhi e partirò per una altro viaggio, senza lasciare o perdere nulla.

   Gianfri era questo: un’ombra nel bosco, il fruscio dell’aria, lo scricchiolio del legno. Da qualche anno Gianfri è partito per l’altro viaggio, chiudendo gli occhi e non perdendo nulla. Qualcuno ancora trova delle impronte di piedi scalzi nella terra umida, tra i castagni secolari e i sassi ammassati, dimore di bisce e di ragni. Io non ho mai avuto dubbi sul fatto che in un modo o nell’altro, la Val Grande, non l’avrebbe abbandonata.     

Stefano Camòrs Guarda

martedì 14 novembre 2017

Difficile da spiegare




…è veramente difficile da spiegare, perché è come se fosse un attacco batterico, dove diventi vittima solo se hai un sistema immunitario indebolito. Anche in questo caso è così, però il sistema immunitario è lo stampo culturale in cui siamo cresciuti. L’educazione che abbiamo ricevuto fin da quando eravamo piccoli. In ogni ambito, familiare o scolastico, laico o religioso quale fosse. Mi trovo a dubitare di ogni cosa, perché intorno a me vedo uno stuolo di gente buona, soddisfatta, compiaciuta e integrata, ma che al più piccolo cedimento crolla. Ovviamente nel disinteresse collettivo, perché finché sei omologato ad uno standard puoi permetterti di essere quello che sei, ma la debolezza, quella no, non mostrarla, è contagiosa. Debolezza è solitudine, retaggio del nostro passato in cui la razza (sia uomini che donne) dovevano essere sorretti dal super-io. Ma se quella era la dottrina con la quale si faceva colazione, pasto e cena, dov’è finita? Forse una generazione nata a stomaco pieno, non ha più fame. Dov’è finita quella forza di sopportazione, la capacità di incassare sonori schiaffoni dal destino? Cadere aiuta a prendere le misure dal terreno la prima volta, la seconda metto le mani prima di picchiare la faccia e forse la terza sbando ma mantengo l’equilibrio. Questa capacità va allenata affrontando in questa maniera le cose a partire da quelle piccole. Certo bisogna anche trasferire i suggerimenti, ma l’esperienza si acquisisce auto-testandosi e non nascondendosi o legandosi al burattinaio che muove le azioni. Davanti a questo panorama, guardando le città dall’alto mia chiedo quanti percepiscano questa sensazione di inadeguatezza, perché privi della libertà. Libertà di provare, di sbagliare, di cadere. Libertà di fare fatica, di sporcarsi, ma anche il gusto di rialzarsi. La sicurezza ha inchiodato e ingolosito per anni le generazioni, che però arrivavano da una condizione di miseria o quasi. Era abbastanza facile prevedere che andasse così. Questo processo “evolutivo” però non può essere visto come una curva che sale all’infinito, anche perché le ultime generazioni non provengono più da uno stato di miseria. Nascendo più o meno nel benessere, esso stesso diventa metabolizzato. Si innesca il principio dell’assuefazione. Lo si da per scontato. Il benessere “moderno”, molto spesso sinonimo di superfluo, viene considerato un diritto acquisito. Il problema è che ogni diritto in più va a scapito di qualcun altro, sia che provenga da paesi del terzo mondo o che sia di una generazione prossima ma non ancora nata. Decade lo spirito e la forza della sopravvivenza, quella vera, fatta di idee e tentativi, di sostanza; prevaricata dalla voglia di apparire, di mostrare però solo le meravigliose decorazioni di un involucro dal contenuto inesistente. Annegare nella disperazione, nell’ansia, riconoscendosi come abitanti di questa cerchia o almeno parzialmente partecipi. Non è un pensiero triste, sconsolato, ma tutt’altro è una deflagrazione. Una scheggia di consapevolezza, di lucidità, quando irrompe alla vista la bellezza gratuita della natura che rinfaccia la completa inutilità dell’umanità sulla terra. Quando è il silenzio a riempire la vastità degli spazi e lascia capire a quei pochi neuroni illesi, quanto la nostra indole, il nostro istinto, soffocato da mille sciocchezze, sapesse che la direzione era completamente sbagliata. Davanti allo stupore inaspettato che un paesaggio può generare, mi angoscia la consapevolezza di tutto ciò che è sempre stato gratuito e da noi ignorato. Quanto peso ho dato ad una carezza ricevuta, quale valore ho compreso di un sorriso o di una chiacchierata fatta tra amici. La risposta, almeno nel mio caso è lapidaria: poca. C’è l’esasperazione ad entra in quel circolo vizioso che è la ricerca di un ambito in cui auto-celebrarsi, convincersi di generare in altri ammirazione. Invece è l’esatto contrario, inseguiamo così tante illusioni che alla fine ignoriamo che ciò di cui abbiamo bisogno non era arrivare in vetta, ma era mantenere salda la cordata. Non si ha più il senso della misura, forse perché non si ha più il senso di praticità delle cose. La maggior parte di noi occidentali trova tutto “a scaffale”. Non si comprende più quanto sia costato, in termini di fatica, fare una determinata cosa. Allora la si sottovaluta, la si sminuisce e questo porta non a godere del valore delle cose, ma nel solo bramare quelle che ancora non si hanno. Una spirale di follia pura. Non posso sapere con certezza se un futuro con la pancia vuota sarà la cura per fortificare una generazione, ma di certo questo è quello che aspetta a chi non inverte il passo e cambia il sentiero. Se fino ad oggi abbiamo seguito un percorso e ci stiamo accorgendo che quella via ci sta portando sull’orlo del precipizio anziché in vetta, ad insistere su quella strada non si è tenaci, si è cretini. Dobbiamo riscoprire la nostra dimensione reale, e la misura alle nostre necessità: se ho freddo accendo un ceppo di legna, non appicco il fuoco ad una intera foresta. Se ciò fosse ancora possibile, ritornare ad una concreta percezione di quello di cui si ha davvero bisogno, sarebbe una svolta epocale. Il benessere, inteso come star bene con gli altri e non sulle spalle di altri. Il buon vivere indirizzato come l’avere solo ciò di cui ho bisogno per essere libero, non ciò che necessito per illudermi di essere privilegiato rispetto ad altri. Quanti che hanno solo generato invidia vengono ricordati. La strada per l’oblio comincia sulla terra dei vivi. Prendiamoci il tempo per godere di ciò che è bello, di ciò che ci viene donato senza un secondo fine. Di ciò che ci arricchisce non riempiendoci le tasche di vizi, illusioni e dipendenze. L’economia esisterà sempre, perché esistono le interazioni tra persone nello scambiarsi i prodotti delle proprie abilità, virtù. La speculazione è una nebbia che offusca l’orizzonte, ma basta attendere che il sole la dissolva e torneremo a vedere la vera bellezza. Pazienza, costanza e umiltà d’animo; se davvero insegnassero questo saremmo un mondo perfetto. Parole di un illuso e fallito, forse, ma che vede vibrante nelle sfumature dell’orizzonte, il germe della speranza.    

Stefano Camòrs Guarda
#ascuoladiumiltà 

Grazie a Stefano Torresan per la bella foto