martedì 13 dicembre 2016

L’uomo del giardino



L’uomo del giardino


Ricordo una giornata piovosa, in un fresco e umido autunno bustocco. L’aria intrisa d’odore di tiglio, sul viale Duca d’Aosta, desolava l’animo. Ultime foglie bagnate, variopinte, lottavano per guadagnare manciate d’istanti, lassù appese, all’illusione d’eternità. Giunto alla casa di riposo, poi, per ricambiare attenzioni al maestro d’una vita, insegnante elementare e anche mio parente, ad essere sincero, le cose non tradirono quell’atteggiamento apatico e stanco. Ci sedemmo ad un tavolo, dinanzi la finestra. La pioggia tamburellava un vetro consumato dal tempo, ma che conservava una dignità elogiabile, da veterano provato. Così appariva anche il mio interlocutore, il mio vecchio maestro elementare, che osservando ben oltre il panorama mi pose una domanda non facile. “Cosa ricorderai dei miei insegnamenti?”. Rimasi in silenzio per un lungo periodo, osservando la sofferenza dell’uomo che tira le somme della propria vita, poi risposi. “Ne stavamo parlando giusto qualche tempo fa, con alcuni ragazzi della tua vecchia classe zio; ormai siamo tutti adulti con figli che vanno loro volta a scuola. Tutti ricordano le originali passeggiate per le vie del centro che ci portavi a fare. Quella ricerca spasmodica per i dettagli artistici, verso cui sollecitavi la nostra attenzione. Ogni volta passavamo davanti all’Edicola di S. Carlo Borromeo, nella contrada Pessina, e alcuni metri prima ad un piccolo giardino, pulito e ordinato, con un uomo sempre al lavoro. Era l’unico individuo tra quelli incontrati cui rivolgevi un saluto diverso, sollevando leggermente il cappello in segno d’intesa. Ogni volta, quell’uomo era là, al lavoro. Ad ogni passeggiata, in ogni stagione, quel giardino appariva bello, ordinato e armonioso, sia esso in stato di fioritura o nel letargo invernale. A quel tempo faticavamo a capire zio, ma crescendo ne abbiamo compreso il senso. A dire la verità, credo anche di percepire una visione pedagogica celata e meravigliosa. Nel nostro peregrinare, ci hai mostrato le bellezze della nostra città più eclatanti, che appaiono palesi all’occhio in tutta la loro maestosità ed eleganza. Eppure non coglievamo l’insistenza di quel passare sempre davanti a quel nobile giardino e a quell’uomo instancabile, impegnato nel perpetrare del proprio operato. Ci hai mostrato, senza imposizioni, come fosse un’opera d’arte, la tenacia del lavoro nella sua costanza silenziosa. Una disciplina morale, che donava alla comunità un piacere gratuito e d’indiscutibile pregio; mai esaltato, mai decantato e purtroppo, mai ringraziato. Oggi quell’uomo non c’è più, il giardino è scomparso nel limbo dei ricordi di sparuti e attempati passanti”. Mio zio, il mio maestro elementare, sorseggiando un tè caldo abbozzò uno spicchio di sorriso. Conclusi con una frase che lo colse di sorpresa, non poteva aspettarsi fossimo arrivati a un livello così alto nella nostra analisi. “L’uomo del giardino non c’è più, ma noi abbiamo compreso di aver avuto un altro esempio simile. Un altro uomo, senza platealità, ha coltivato un particolare giardino per molti anni, con costanza e passione. Quel giardino eravamo noi, i tuoi alunni. L’uomo tenace ha lavorato sui nostri intelletti, con umiltà e devozione, nel rendere quell’acerbo vivaio di menti un bosco, una solida brughiera”. Sicuramente avevo colpito nel segno, perché mi congedai da lui osservando dei profondi occhi lucidi di commozione. Forse, ora riconosceva in me quella fragile talea, divenuta albero da frutto. Oggi il maestro non è più tra noi, altrove anime invisibili hanno reclamato l’aiuto della sua bravura e del suo amore. Davanti ad una foto ingiallita, d’una istituzione scolastica che non esiste più, non provo rimpianto. Ho potuto donare il conforto d’un ringraziamento all’artefice della nostra crescita e maturazione. Sono riuscito a ricambiare con una piccola parola il dono immenso che lui aveva fatto alla sua classe.

Stefano Camòrs Guarda

venerdì 9 dicembre 2016

La morte dell’ora blu


Un ripetersi d’istanti, costante come i giri del pianeta. Un tempo sospeso nella luce tenue e delicata dell’oblio. Sfumature innaturali donano alla volta riflessi madreperla, e l’occhio annega nel paesaggio senza voglia di reagire. Un sospiro d’abbandono e cedo all’infinito che diviene visibile, una terra di confine dove solo la sensibilità non è più apolide. Una voce interiore biascica una frase, della misera ragione estranea. S'inerpica come edera soffocante nella mente e agonizza l'animo negli ultimi spasmi di rigetto, paura d'ignoto.
Avverso corpo estraneo è questo palcoscenico, che insiste saldamente e mi strema verso una ricerca di liberazione da ciò che non è pensiero, da ciò che è umano. Non ho mani per scagliare con violenza rabbiosa la mia lancia d'ignoranza.
M'arrendo e abbandono, ma non t'assorbo, diffido, ti ricopro, rivesto, faccio mio in vestigia nuove. Senza pietà sei già nel mio animo annichilito e impasti di nuove forme le crete dei sentimenti.  Compensi le mie imperfezioni, le colmi e plasmi in sferica armonia. Un nuovo pensiero, screziato nei tuoi colori privi di confine: attingono vita e risplendono alla luce di nuova conoscenza che si perde sulle pareti del mio cuore e nell’oscurità dell’universo. Risalta dei tuoi toni il valore della vita e un vento freddo da Nord-Ovest porta un canto commosso: Sei preziosa esistenza, sei rara e unica, inaspettata e meravigliosa, rivestita del colore del cielo, in madreperla.
D’improvviso addirittura s'è placato il vento di Nord-Ovest che sibila, lacera, irrita l'umore.
Il buio è in cerca di pensieri che evaporano nell'insieme dei respiri, nel rintocco di sospiri. L'oscurità fagocita fantasmi di fiato e mi scopro di nuovo ad alzare il pesante tabarro di solitudine.
Appaio alle stelle come inutile sentinella, qui fuori di veglia e invidio le luci della valle; ad una ad una si spengono, affondano nella notte le assi seccate dal gelo, le piode, gli scuri sbarrati.
Dove siete ostili folate? Perché non tornate a tormentare il mio volto scatenando, per mio sollievo, l'adrenalina del fastidio? Non c'è portanza che regga ali nel tedio di un'inutile attesa, nemmeno il campanile della Chiesa Vecchia mostra voglia di sprecar voce, e s’adagia al ricordo immoto che la circonda.
Non ha senso abusare del tepore del focolare, il mio posto è qui, al domestico confino. Abbarbicato alle fronde del tiglio grande in attesa di echi celesti.  Quale battaglia ho combattuto? Esule e reduce insepolto del mio tempo, d'una guerra cui nessuno, ha coraggio dir ch'esista.  Virulenta inquietudine della mente che invidia la quiete ai sepolcri da folate lambiti; che l'anfratto sanguinante nel mio petto sia pertugio per quel vento? 
Allor m'illudo, sai, per un istante d'esser diverso da uomo, solo perché m'isolo coatto nell'antro delle mie paure, verso quelle quote severe, pulite. La notte della città è prostituta da maritare, in laidi andirivieni di false promesse. Non qui. La luna è sincera, il vento non s'ammansueta all'esibita arroganza. Sfibra le mie nervature e rinfaccia le mie intime vanità: sei uomo! Esisti per un istante e, avaro mentecatto, blasoni diritti non tuoi.
S’annida sul ramo lo sconforto della ragione che alimenta un filo di voce, un sussurro tagliente, immancabile lama d'ogni istante: guida, giudice, carnefice. Ignoro del vago argomentare quasi tutto tranne le parole sottili, garbate, esili persino, eppure ingabbiano comunque ogni mio istinto.
S'amalgama al sogno il desiderio dell'alba della realtà, sorretta e salda procederà forse la mia figura, avvolta in quel filo di voce.
In fondo era solo luce. Di che avrò mai sittanto cordoglio? In un attimo è accaduto, il sole è annegato nell'orizzonte aguzzo e luminoso; e non era più giorno, non ancora notte: solo luce.
Il cuore delle nubi pareva scuro, s'incendiarono effimeri i bordi e inebriato fiorì lo spirito: non astratto, non tangibile. Mi assentai, immersi nel puro pensiero e quiete fu, confine tra il sogno e la veglia. Persi la carne e mi unii al cielo, per un rapido istante dal valore di un'esistenza.
Ecco di cosa bramo il prolungarsi dell’esperienza. Per un attimo ancora vestire un drappo dell’abito di Dio: non più uomo, solo luce.  


Stefano Camòrs Guarda