sabato 31 agosto 2013

Scaglie di memoria


La sveglia avrebbe dovuto suonare alle cinque, alle quattro e cinquantanove prendo l’orologio e la tolgo. E’ sempre così, ogni volta che devo andare in montagna l’entusiasmo è talmente tanto da farmi anticipare la sveglia. Forse è proprio questa una delle ragioni che me la fanno amare tanto, è una delle pochissime cose, se non l’unica, che mi fa riassaporare in ogni occasione l’euforia di un fanciullo. Mi alzo dal letto cercando di essere il più delicato possibile e mi reco furtivamente in cucina per un rapido caffè. Lancio un’occhiata fuori dal vetro, la giornata è meravigliosa. Al piano di sotto sento che anche mio cognato, Fabiano, è già pronto ed infatti di lì a qualche istante appare in cortile mandandomi un cenno d’intesa, è ora di andare. Poco dopo l’auto scorre tranquilla le curve che dal Bleggio Superiore scendono al paese di Ponte Arche, per poi risalire d’impeto verso Stenico. Passiamo accanto al Castello ed alla magnifica cascata dell’acqua bianca, che gorgogliando saluta il nuovo giorno, ornando di spumeggiante organza le pareti di roccia. La strada prosegue serpeggiante lungo i costoni rocciosi, sempre asfaltata e comoda fino al bivio d’entrata alla Val d’Algone. Da lì, la strada si stringe un poco e ci rendiamo conto che è una fortuna che sia mattina presto e non ci siano auto che scendano. Arriviamo finalmente alla fatidica sbarra, dove si paga l’ingresso per il restante pezzo di strada, che ironia della sorte, a pagamento, è il tratto tutto  sterrato. Sono circa otto chilometri di curve e dossi sassosi che si eviterebbero volentieri, ma quella mezz’ora di sballottamenti permette di giungere alla malga Movlina, facendoci prendere quota e risparmiandoci almeno due ore di tempo. Raggiungiamo finalmente il posteggio nei pressi della malga. Scendo dall’auto e subito l’occhio viene catturato dalla corona di cime che svetta davanti a noi, ornate da un’aurea di luce che lentamente solleva il proprio calore alle loro spalle. Mi cambio scarpe, infilo lo zaino, prendo un profondo respiro; sono a casa. 
Bando ai convenevoli, è ora di muovere il passo, e via che si va. Io, carico come una molla e con il sorriso ebete che mi caratterizza quando cammino in montagna e mio cognato, con i suoi bastoncini da trekker professionista. Dalla Movlina scendiamo fino al bivio dove si incrociano due sentieri il n° 341, che si inerpica su per la val di Sacc e l’altro, il più frequentato, che sale per la val di Nardis, ma che noi useremo per la discesa. Il sentiero intrapreso serpeggia immediatamente tra magnifici larici, rasenta rododendri fioriti e un pungente profumo di resina e terra di bosco, inebria il mio corpo. Quando pensi che nulla possa essere migliore di così, la montagna continua a stupirti, infatti, appena volgo lo sguardo alla mia destra, ecco comparire in tutto il suo splendore il Carè Alto. Intrigante e gelato gendarme della val Rendena, dal profilo inconfondibile e dal passato insanguinato. Che meraviglia, prendo un altro profondo respiro e riparto, mentre i profumi del sottobosco mi penetrano le narici e incuranti della natura, evitano di rintanarsi nei polmoni per andare diritti a posarsi sulle pareti vibranti del cuore. Il percorso spiana leggermente quando arriviamo alla Baita dei cacciatori. Da lì, un altro bivio ci attende e noi tenendo la nostra sinistra ci incamminiamo verso un primo divertente saltino roccioso, che ci conduce al primo tratto di ghiaione. Questo è il pezzo, tra virgolette, più bruttino da camminare. La via percorre una salita abbastanza ripida, ma che è realmente formata da ghiaia, per cui facciamo veramente fatica a stare in piedi. Intorno a noi troneggia un anfiteatro di pareti da togliere il fiato, dalla Pala dei Mughi, alla nostra sinistra, fino alla Cima dei Camosci davanti a noi. A proposito di ungolati, quasi sapessero del mio soprannome, Camòrs appunto, un intero branco di una trentina di camosci, di tutte le taglie, scende correndo verso il ghiaione. Balzellano mostrandoci infinita leggerezza e leggiadria, quasi a sottolineare chi è il padrone di casa e chi è l’ospite. Li guardo ammaliato, mentre danzano tra gradini di croda e cengette innevate e quasi mi viene da sussurrare: Tranquilli, sappiamo benissimo di essere noi gli ospiti quassù. Giunti alla sommità della pietraia ci aspetta un balzello di roccia di una quindicina di metri, attrezzato addirittura con dei cavi da ferrata, indubbiamente utilissimi in caso di ghiaccio, ma che oggi, evito con accuratezza e scimmiottando grossolanamente la bravura degli acrobati quadrupedi, veduti poco prima, mi diverto ad emularne i movimenti. Qualche esemplare, immobile poco sopra, mi guarda incuriosito e … chissà a cosa starà pensando. Fortuna mia che non abbiano la parola. Superato il tratto roccioso, siamo costretti a procedere per un ulteriore tratto ghiaioso, anche se per onor di cronaca, meno franoso del precedente. Saliamo spediti verso il Passo Dodici Apostoli, con l’omonima cima alla sua sinistra e una strana formazione rocciosa alla medesima altezza del passo. La roccia è scavata da eventi naturali in una maniera da sembrare la dentatura di un francobollo, oppure vista da più lontano quelle sagome possono sembrare dei fraticelli in fila indiana, che siano questi i Dodici Apostoli? Mi volto, mio cognato sta salendo molto bene, non ha problemi ne di gamba ne di fiato, molto bene.
   Ultimo tratto roccioso di pochi metri ed eccoci al Passo. Appena sbucati ci troviamo di fronte ad un altro immenso anfiteatro naturale formato da cime e pareti verticali, ancora abbastanza innevate benché sia Agosto. Non ricordo tutti i nomi di quelle cime, ma sicuramente quella davanti a me è la cima d’Agola, con al suo fianco la cima d’Agola bassa, che sale sinuosa e ondeggiante come se invece di roccia si trattasse d’acqua; incurante o indifferente del fatto che il mare da qui si è ritirato milioni di anni fa.
   Scendiamo verso il rifugio facendo dello slalom tra saltelli di dolomia e ometti segnavia. In prossimità del rifugio mi stacco un attimo da mio cognato, vado a fare visita al memoriale scavato nella roccia della montagna. Una grotta, con l’estremità sulla parete strapiombante, scolpita a forma di croce. Una volta dentro, mi fermo un istante dando le spalle ai monti e con il viso rivolto alle decine di lapidi commemorative. Rivolgo un istintivo e sommesso saluto, a persone che avevano la mia stessa passione, o forse maggiore, tanto che la montagna le ha volute con sé. Una preghiera, sussurrata e vestita d’umana commozione, nel guardare quelle foto negli occhi. Poi ancora, uno sguardo al panorama, che dipinge l’orizzonte fuori da quella stanza di dolomitica memoria e un pensiero, che striscia come una serpe nei meandri della mia mente. Quel posto, è un sacrario dedicato ai caduti di tutte le guerre, ma subito il ricordo corre alla prima guerra e penso a tutti quelli di lingua e nazionalità diversa che sono passati da qui e sono rimasti estasiati fino all’emozione. Mi convinco sempre di più, quindi, che come la maggior parte delle cose al mondo ha una matrice dualistica, anche la differenza tra gli essere umani è semplicemente assimilabile in soli due gruppi. Rabbrividendo al pensiero di generazioni perse per difendere un sasso, seppur meraviglioso, approdo alla conclusione che il mondo sia diviso tra uomini e uomini stupidi; ad ognuno poi, sta la facoltà di interrogarsi sul suo clan d’appartenenza. Devo andare, Fabiano mi attende al rifugio per rifocillarci un poco, prima di scendere e tornare alle nostre amate quotidianità. 
Due risate e una fetta di torta, un’occhiata di ammirazione ad una foto di Bruno Detassis, appesa alla parete, e un po’ d’invidia per quella magnifica stufa di maiolica bianca, posata in un angolo, che sicuramente riscalda con cura serate un po’ alcoliche e conversazioni amichevoli.
   Usciamo dal rifugio, siamo praticamente soli all’ingresso di un palcoscenico, dove le meraviglie sono là, sugli spalti e a noi inutili comparse non spetta che ammirare, contemplare silenziosamente l’immota ed effimera bellezza. Osservo rapito quelle verticalità, poi chiudo gli occhi e prendo di nuovo un bel respiro profondo. L’aria è fresca e profuma di polvere di roccia. Mi balenano alla mente le immagini viste al rifugio, Detassis, Agostini e altri pionieri dell’alpinismo. Gente che con scarpe di feltro e una corda di canapa legata alla vita, con qualche chiodo costruito in cantina, salivano e aprivano vie sulle candide pietre di queste roccaforti. Se penso a quali attrezzi vengono utilizzati oggi, oltre allo sguardo al cielo non può che salire una stima infinita nei loro confronti.
   E’ tempo di tornare, a malincuore, ma come mi avevano ricordato i camosci, sono solo un ospite. Per cui è ora di togliere il disturbo, e poi, quei profili e quel luogo, si sono già stampati nella mente più indelebili di qualsiasi foto abbiamo fatto. La discesa la effettuiamo seguendo il sentiero n° 307, che scende alla val di Nardis. La prima parte è molto divertente, su risalti di roccia, poi su un breve ghiaione fino a giungere ad un tratto attrezzato con cavo d’acciaio e poco più sotto, addirittura scalinato con travi di legno. Nello scendere incontriamo parecchie persone che stanno salendo, ci si saluta anche se non ci si conosce. Questa è un’altra consapevolezza che regala la montagna, qui esiste un'unica moneta, la fatica. Ecco quindi che con chiunque si abbia un incontro, si ha già una cosa condivisa, anche se si tratta di uno sconosciuto e questo ci porta tutti allo stesso livello. Chi sceglie la salita, per un certo tempo non ha più ceto sociale o casta. Ognuno è solo con il suo cammino, con il suo animo, ognuno deve pagare un fio con quell’inesauribile conio.       
    Alla fine della discesa più ripida il sentiero si tuffa in un mare di verde ispirazione, iniettando l’estasiato viandante in un bosco di mugo. Un sottile rivolo, di pietrisco bianco, si insinua tra fitte e profumate fronde aghiformi, ornate da piccole pigne di colore brunito, mentre a terra, ad incorniciare il passo, s’adagia del rododendro fiorito. Dall’alto la sagoma del rifugio sembra vigilare sulla valle. Usciti da quel resinoso sogno, la via ritorna in salita, tra larici e abeti, costeggiando dall’alto il lago di val d’Agola. Giungiamo al bivio con il sentiero n° 354, che in una decina di minuti ci riporta alla malga Movlina. Da lì in poi, la strada ritorna uguale a quella dell’andata, quello che muta ogni volta, è lo stato di intenso benessere che impregna il mio animo; assorbito dal terreno, donato forse, da quelle scaglie di memoria.   

Camòrs 

 


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