lunedì 22 gennaio 2018

La voce degli avi - intervista a Guido Rey (mountain's echoes)


Io credetti, e credo
la lotta con l'Alpe
utile come il lavoro,
nobile come un'arte,
bella come una fede. 

Una delle domande più frequenti che un alpinista si sente chiedere, seconda solo all’affermazione sarcastica del “ma chi te lo fa fare?” è il “perché lo fai?”.

Anche il solo tentativo di spiegazione, a chi non ha mai provato un’esperienza del genere può essere considerato come una sfida improba; ma già in origine ricercare in sé stessi le parole per riassumere sensatamente quella pangea di sentimenti, pensieri, ideali che ci avvolgono, quella spinta motivazionale a volte rasente l’irrazionalità, è tutt’altro che banale. La questione diventa, ammesso che possa, ancora più complessa se questa domanda viene posta ad un alpinista amatoriale. Certo i professionisti hanno motivazioni del tutto differenti, gli alpinisti estremi e quelli di punta ormai sono, per preparazione, assimilabili ad atleti professionisti e quindi con obiettivi e primati da rispettare o quantomeno tentare. Ma un amatore non ha nulla da superare, se non il proprio limite. Dei resoconti delle sue ascensioni nessuno si cura, se non qualche amico con la medesima passione e con cui condividere bicchieri di grappa o genépy, progetti e, appunto, ricordi di vetta.
Per cercare di approcciare questo argomento, e soprattutto cercare di capire chi è l’alpinista amatoriale e cosa muove le sue pulsioni montane, mi appoggio ad un grande esponente dell’alpinismo di inizio ‘900, Guido Rey, cui nelle impareggiabili testimonianze da lui lasciate emerge, in modo cristallino, come il connubio ascensione alpinistica/animo umano sia quanto mai indissolubile.
Vorrei tentare un gioco e partendo da ciò che è già un lascito storico, costruire alcune domande e dare vita ad un’intervista postuma; nella speranza che dalle vette celesti, il nostro ispiratore non abbia a contrariarsi.
Le risposte di Guido Rey sono frasi realmente esistenti e tratte da due suoi celebri libri: Il monte Cervino e Alpinismo Acrobatico, entrambi scritti nei primi anni del novecento.
Certamente quanto sotto riportato non ha l’azzardo di essere una ricostruzione storica attendibile, anche perché le brevi frasi così estrapolate vengono decontestualizzate rispetto all’ampiezza degli argomenti trattati nella completezza dei libri . Il mio unico scopo è quello di rendere omaggio ad una grande modello d’ispirazione, che tanto dona con le parole lasciate in eredità alla storia del territorio e al tesoro più grande che le generazioni future dovrebbero far fruttare: il rispetto.  

---O---

Signor Rey, ai suoi tempi l’alpinista professionista non esisteva, chi tentava le vetta aveva più o meno la preparazione che hanno al giorno d’oggi taluni amatori. Ma chi è questo genere di alpinista? Un super uomo che ha un fisico d’acciaio e una ferrea e inscalfibile volontà?    

G.REY: “L’alpinista non è di ferro; un momento di debolezza fisica può capitare ad ognuno, anche alle guide. Se l’alpinista non fosse un uomo fragile, non avrebbe il sentimento della durezza della montagna, non godrebbe del contrasto che sgorga dalla coscienza della disproporzione delle proprie forze con la forza infinita che ha da vincere, contrasto che è forse una delle ragioni più profonde della sua passione”.  

Bene, direi che è estremamente condivisibile, ma quindi proprio in natura di questa coscienza d’inferiorità verso le montagne, il solo tentativo nell’affrontare questa lotta è, a suo avviso, solo mosso da un’immane incoscienza e alterigia o c’è altro, di più profondo e al contempo di celata evidenza?   

G.REY: “Quando l’uomo fiuta il rischio, diventa uomo per davvero con quanto esso ha di più primitivamente bello e valente; coraggiosi come un piccolo animale che difende la sua vita da un mostro cento volte più grande e più forte di lui; impassibile come doveva essere il primo uomo che traeva la vita fra le difficoltà della natura, alla guisa delle fiere, che soffriva e godeva, ma forse non piangeva né rideva ancora. In questa lotta stretta col monte il malato si rassegna e si accascia; il sano si compiace dell’aspra voluttà della contesa, e, quando giunge a liberarsi delle strette del mostro, respira come non ha mai respirato in vita sua”.

Meraviglioso paragone, ovviamente gli uomini primitivi non disponevano di strumenti specifici per attività di questo tipo. Com’è il suo rapporto con l’accessorio alpinistico?

G.REY: “E’ della piccozza come di certi amici: desiderate averli al fianco nel momento del bisogno; passato questo, alla prima noia che vi danno, vi riescono importuni, e, nel corto egoismo umano, non pensate che fra breve potranno giovare ancora”.

Garbato e fine umorismo, immagino che l’ironia sia una componente fondamentale nella resistenza psicologica. Nei tempi moderni le vie o meglio i “problemi irrisolti” non sono più così tanti come ai sui tempi, quindi numerose sono le cosi dette “ripetizioni”. Il valore di una ripetizione è a parer suo altrettanto soddisfacente rispetto all’apertura di una via?

G.REY: “La vera virtù è del primo che la compie; ma esso stesso, nel compierla, la rende accessibile ad altri epperò meno alta. Alle ansie, allo slancio audace dell’artista che crea, si sostituisce la calma e la sicurezza servile di chi copia. E se avviene che taluno rinnovi l’opera, ancorché portandola a più perfetto compimento non avrà né il merito né le gioie che toccarono al primo”.

Quindi se comprendo appieno il senso, la montagna è sopra tutto per gli audaci che cercano una certa unicità nell’approccio alla roccia e al ghiaccio. Ma l’ambiente montano è limitante alle esclusività alpinistiche o è affabile ad altre tipologie umane?

G.REY: “Ma la montagna è così benefica e grande che tutti accoglie quelli che si volgono a lei, e a tutti giova: agli scienziati che ne fanno oggetto di studio; ai pittori ed ai poeti che vi ricercano un’ispirazione; ai robusti che anelano ad intense fatiche, come agli stanchi che fuggono l’afa e le noie della città per ristorarsi a questa sorgente purissima di salute fisica e morale”.

In buona sostanza la frequentazione della montagna e in special modo la pratica alpinistica sono propedeutici ad un percorso più intimo e completo della persona, è corretto?  

G.REY: “L’alpinismo è cosa umana, naturale, come è naturale il camminare, il guardare, il pensare; umana come tutte le passioni, con le sue debolezze, i suoi slanci, le sue gioie e i suoi disinganni, e, come altre passioni, esalta e matura l’animo umano”.

Qual è, a suo parere, il valore più grande nel passare del tempo in un ambiente montano?  

G.REY: “Vi sono dei giorni in cui viene di destarsi di buon umore, in cui ci si sente più sani e più valenti, non si dubita di noi stessi, le cose più difficili ci sembrano facili, e quasi si desidera di incontrare le difficoltà pel piacere di superarle. Sono giorni eccezionali, ma certamente più frequenti in montagna che in città”.

Penso che in quello che dice molti di noi potrebbero confermare immedesimandosi in quel senso di armonia che si prova quando si percepisce l’esistenza di un equilibrio, sia nelle cose della natura – di cui siamo parte- ma anche nell’intangibile intimità della nostra mente. A tal proposito, un semplice visitatore cittadino cosa dovrebbe pensare nel vedere un alpinista avviarsi verso le proprie ardite sfide?

G.REY: “Per quanto in questa lotta l’animo nostro parteggi, non possiamo che ammirare quell’uomo appassionato del suo monte, come di un ideale altissimo. E’ una lotta che ricorda le giostre antiche ove per un fiore si esponeva la vita”.

Secondo Lei, nel rapporto tra l’alpinista e la montagna, è nell’uomo che permane un animo giovane come che vuole scoprire nuove prospettive, oppure è la montagna in sé che emana una energia occulta che magnetizza l’attenzione, alimentando questa profonda passione?

G.REY: “Bisogna pure che nei monti sia un fascino segreto perché essi ci attraggano a cercarvi difficoltà e fatiche sempre maggiori, e perché tanto più li amiamo quanto più ci hanno costato. Ma questi segreti l’anima giovinetta non analizza; essa va impetuosamente a ciò che l’attrae, senza domandare il perché”.

Lei è credente, ma pensa che in termini di fede, un arduo cammino e l’estasi della vetta si manifestino in ogni uomo?

G.REY: “Quassù anche lo spavaldo tace, e lo scettico non ride se vede una guida deporre l’obolo nella bussola dell’elemosine, e scoprirsi il capo nel passare davanti alla statuetta della Madonna”.

Attraverso la Sua mirabile esperienza e cultura, come potrebbe descrivere ad un neofita l’esperienza catartica del raggiungimento della vetta?  

G.REY: “Il pane che divoravo lassù aveva un sapore che non avevo mai gustato. E scopersi la gioia nuovissima, inesplicabile, di giungere sul punto culminante, ove è la vetta, ove il monte ha cessato di salire e l’animo cessa di desiderare: è una forma quasi perfetta di soddisfazione dell’istinto, quale forse la prova il filosofo che ha conquistato alfine una verità nella quale la mente sua si appaga e riposa”.

Quindi la montagna non viene idealizzata come una divinità, ma piuttosto come un nemico da affrontare o, meglio ancora, un amico con cui crescere a conoscersi nel viaggio della vita?

G.REY: “Il monte vive, come gli uomini, dalla sua vita che lentamente lo consuma, e di questa vita dà tratto tratto pericolosi segni”.

Come vedevate, ai vostri tempi, le imprese o i tentativi degli alpinisti di metà dell’ottocento e cosa consiglierebbe agli alpinisti moderni che, magari non conoscendo la storia di un monte o di un alpinista, reputano – ma solo con l’utilizzo di attrezzature moderne – una via classica non difficile, se non addirittura semplice?  

G.REY: “E’ nostro dovere conservare il culto poetico del passato dell’alpinismo. Crawford Grove, il secondo alpinista che salì al Cervino, ha lasciato scritto: << Possa la giovane generazione, che esulta in facili vittorie sul monte altre volte temuto, non guardare con disdegno al progresso dei pionieri delle alpi >>”.

Posso chiederLe di dare un prezioso suggerimento, in base al suo vissuto, verso tutte quelle persone che usualmente approcciano o hanno intenzione di frequentare in un futuro l’ambiente montano?

G.REY: “Provai gioie troppo grandi per poterle descrivere, e dolori tali che non ho ardito di parlarne. Con questi sensi nell’animo io dico: Salite ai monti, ma ricordate che coraggio e vigore nulla contano senza la prudenza; ricordate che la negligenza di un solo istante può distruggere la felicità di tutta una vita. Non fate nulla con la fretta; guardate bene ad ogni passo, e fin dal principio pensate quale può essere il fine”.

Un’ultima domanda prima di accomiatarci e ringraziarla per la Sua preziosa testimonianza. Come descriverebbe, a chi non è avvezzo alle cime, i benefici che apporta l’esperienza montana e se è vero che alcuni sentimenti vengono addirittura amplificati e percepiti nella loro pienezza?  

G.REY: “Vorrei che gli increduli provassero il benefico effetto che produce in noi una grande salita. Allora ci sembrano macchine la vanità che ingombra il nostro animo prima di partire; troviamo buoni gli agi di cui prima eravamo sazi; sentiamo di amare di più la nostra casa e la famiglia che in essa ci attende; anche noi, alpinisti, abbiamo i nostri affetti, ai quali pensiamo, nel momento del pericolo, assai più intensamente che non vi pensi altri quando vive della sua vita consueta; e, scendendo dai monti, siamo lieti di recare ai nostri cari la serenità acquisita lassù, di vederli sorriderci perché sanno che la montagna restituisce loro un figlio, un fratello, un amico più sano, più affettuoso e forte”.

L’intervista è ultimata e non posso che ringraziare nuovamente, anche se in maniera virtuale, un alpinista, uno scrittore, un maestro di vita, che con le sue testimonianze è capace ancora oggi, di tenere legati alla stessa cordata l’odierna modernità ad una passato lontano, recuperando i margini sbiaditi del ricordo e donando ai posteri il dono più ampio che l’intelletto umano possa ricevere: l’incoraggiamento verso una reale contemplazione.

Stefano Camòrs Guarda



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