mercoledì 9 dicembre 2015

Diario di un uomo sospeso…una domenica di sole finto







29 Novembre 2015, una domenica di sole finto



Le foglie sugli alberi sono cadute quasi tutte, le spazzatrici comunali e gli addetti con i loro soffiatori le hanno fatte sparire anche da terra, perché è diventato un problema sporcarsi le scarpe, non avere un lindo manto d'asfalto sotto i piedi. Mi dicono che è pericoloso, perché poi con l'abbassarsi delle temperature si rivelerebbero scivolose, soprattutto per le persone anziane. Penso che sarebbe un rischio che le “persone anziane” correrebbero volentieri, l'unica controindicazione potrebbe essere quella che potrebbero ritrovare alcuni sentimenti felici della propria fanciullezza, quando camminare strisciando i piedi fino a quasi ricoprire le gambe era un gioco, e non certo un rischio. Allora forse a qualcuno verrebbe voglia di camminare di più, e così facendo starebbe meglio, patirebbe meno gli acciacchi e prenderebbe meno medicine. Ma così facendo qualcun altro ci guadagnerebbe un po' meno. Allora non va bene, è rischioso. Già, ma mi chiedo per chi. Se poi per caso un anziano si facesse aiutare da un nipote e magari nel tragitto parlassero? Si confrontassero, si capissero. No, è rischioso. Meglio avere dei marciapiedi lindi ma inutilizzati; poi magari il manto rovinato o dissestato per l'utilizzo di materiale scadente. Lì il rischio non c'è, perché c'è un contratto d'appalto al massimo ribasso, ci sono pastoie autorizzative e vincoli sulla sicurezza, assicurazioni e coperture di rischio che tutelano l'ente ma che paga chi inciampa in quei buchi. Lì il rischio non c'è, c'è solo un'equa ripartizione di denaro.



Il cielo oggi è di una bella tonalità d'azzurro e l'aria è fredda di un autunno durato un paio di giorni, tra un interminabile estate e un inatteso inverno. Il fatto di essere fuori, all'aperto, è già un toccasana al mio animo irrequieto e ingabbiato in questa città dorata, dove tutto è a portata di mano, se si possiedono sufficienti averi. Passeggio tranquillo affiancato da auto intelligenti ma guidate da autisti distratti, ancorato a un macigno che mi pesa da tempo e che logora sonni e veglie: perché sono ancora qui?

Le luminarie natalizie, ancora spente ma approntate, disegnano freddi arzigogoli per addolcire glia animi. Quasi mai funzionano però, perché anche quando sono illuminate è sufficiente che ad un semaforo non ci si accorga dello scattare del verde per sentire un concerto in si bemolle di clacson, e cori impettiti che intonano versi da battaglione alpino con assonanze del tipo  “vai a fare il mulo” o “hai la testa del plotone”. Fatto salvo poi stringersi la mano e augurarsi felicità nei due luoghi di culto della città: la chiesa e il centro commerciale. Vedi alla televisione funeste immagini di territori devastati dalla guerra e senti dire che sono arrivati i terroristi anche da noi,  nel mondo civilizzato. Poi esci a fare due passi e osservi due che si ammazzano di botte per un posteggio rubato. Già, noi del mondo civilizzato non abbiamo il problema delle mine ma dei parcheggi. Ad ogni passo che faccio chiedo a me stesso perché rimango, perché mi ostino a vivere in un mondo che trovo insoddisfacente.  A dispetto di tante persone io non avrei alcuna pretesa, poche semplici cose e un ritrovato contatto con un ritmo da una persona umana. Se continuiamo così tra un po' di tempo vorremo l'inverno di notte, la primavera al mattino, l'estate il pomeriggio e l'autunno la sera. Poco importa se poi la vita di ognuno durerà sessanta o settanta giorni. Vogliamo sempre quello che non abbiamo, dimenticandoci di godere di quello che abbiamo e che è tanto. Il perché rimanere, purtroppo è facile da individuare, è malcelato anche dall'inconscio, perché anche se non lo ammetterei mai, io sono parte di questo presepe dove ci sono due pastori e tutti gli altri si credono re magi. Il cuore ogni giorno ti tenta, soprattutto in giornate soleggiate come queste: “molla tutto e va, ritirati in un paesino a vivere di agricoltura e libero dalle catene dei tempi stabiliti”. La ragione un istante dopo risponde con autorità e rabbia: “ma dove vuoi andare, qui hai le comodità, un lavoro che ti porta del denaro e la tua famiglia che dipende completamente da te, sei matto?”. L'inconscio appassisce come un fiore delicato posto in mezzo a due correnti d'aria gelida. Allora sogno, sogno di poterlo fare, immagino di poter partire e non tornare. Alimento i sogni di menzogne e mi fingo soddisfatto e contento, se non per me, almeno per chi mi sta attorno. Ma quando vedo persone che hanno fatto quel passo e nonostante le avversità appaiono serene, io le invidio. Invidio il loro coraggio, la temerarietà e la ritrovata armonia. Sopravvivo fuggendo, o sfuggendo la quotidianità. Mi regalo brevi momenti di vera libertà, presi come una boccata d'ossigeno prima di una lunga apnea. Scappo sui monti e, quando sono in vetta, osservo l'abisso e quella pianura lontana e avvolta da una ripugnante nebbia giallastra, pensando che quella è la mia casa, la mia tomba. 


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