martedì 16 gennaio 2018

Monte Cervino 1903 (mountain's echoes)


Leggere un libro è sempre un’esperienza, ma imbattersi in un libro scritto molto tempo prima della propria nascita può risultare davvero un’avventura impareggiabile e un vero e proprio viaggio nel tempo. E’ stato così avvicinandomi al libro “Il Monte Cervino” di Guido Rey, finito di scrivere nel 1903 (data riportata al termine dell’ultimo brano), anche se la data di pubblicazione del libro in questione in mio possesso è relativa alla seconda edizione del 1926. Colpisce da subito la mole del tomo e la fattura, sinonimo di un periodo storico in cui i libri erano ancora il fulcro culturale di una generazione. La parola scritta e la cultura erano ancora viste come un valore assoluto dal quale era impensabile rinunciare, anche se ancora prescindeva dal ceto sociale e dalla disponibilità economica. Il libro era visto anche come patrimonio di famiglia e questo aggiungeva valore economico al prestigio culturale, era qualcosa che veniva inserito nel blasone famigliare, nella dote della propria casata, che andava a comporre lo spessore del proprio cognome. Insomma come ogni oggetto importante doveva essere fatto alla regola dell’arte e curato in ogni minimo dettaglio. Era un così detto status symbol portatile; oggi lo è il telefono cellulare, e questo dovrebbe già farci riflettere sulla direzione che ha preso la nostra cultura.

Ma torniamo al libro in questione, un libro che pesa più di un chilo e ha dimensioni che sono più da leggio che non da tenere tra le mani. La sotto copertina rigida in tessuto verde con la sola scritta di colore oro, simbolo anche in questo caso di un ceto sociale che doveva dimostrare la capacità di mantenere la sua lucidità, fierezza e serietà in ogni occasione. La copertina non colpisce l’attenzione e anche in questo frangente c’è la dimostrazione di come questo testo non fosse destinato, o quanto meno nelle intenzioni dell’editore, non ci fosse comunque una volontà di acquisire, catturare l’attenzione del lettore comune (che probabilmente ancora non esisteva, così come lo concepiamo oggi). Il prezzo, due lire, e la fattura già erano l’indizio che quell’oggetto era prima di tutto un livello che poteva essere accessibile a partire da una certa borghesia in su.

Un altro suggerimento che fa risaltare la volontà di un prodotto destinato a durare nel tempo è lo spessore della carta utilizzata nella stampa. La finezza delle tavole, separate dalle pagine del libro e poi incollate (a mano) all’interno di appositi riquadri, sinonimo sempre più di un valore aggiunto volutamente concepito.
Non stupisce la prefazione di Edmondo de Amicis, in quanto è abbastanza nota l’amicizia che intercorreva tra i due e la frequentazione montana che ebbero. L’affetto poi che s’instaurò tra Guido Rey e il figlio di Edmondo, Ugo de Amicis, divenuti poi compagni di cordata in molte ascensioni.
Il contenuto, ovviamente con le dovute limitazioni tecnologiche di quel tempo, è davvero interessante in quanto permette di capire la curiosità, i timori, le superstizioni, ma soprattutto la forgia con cui quelle persone erano state formate e pronte ad affrontare insidie di una difficoltà che si moltiplicava all’ennesima potenza rispetto a ciò che potrebbe essere affrontandola con le conoscenze ed attrezzature di oggi. Pionieri veri, che affrontavano la morte e la montagna non considerandola in un alone di mito, ma rendendo l’idea di quale fosse un reale concetto di rispetto in quella generazione. La natura e le montagne, il Cervino nello specifico, venivano viste come un dono divino concesso all’uomo inizialmente per colmare lo sguardo delle genti di città. Uno strumento catalizzatore di letterati, studiosi e poeti, motivante e ispiratore. Un ideale di purezza e felicità che poi venne disatteso da quelli che delle montagne cominciarono a risalirne i pendii e si trovarono faccia a faccia con la vera severità dell’ambiente e la flebile rassegnazione delle genti indigene. Eppure nonostante l’indigenza e l’immane fatica nel reperire ogni genere di prima necessità, i nativi di queste terre alte serbano nel cuore la propria terra: “E fra le cose oneste che i montanari hanno insegnato agli uomini di città havvi questo profondo amore al luogo natìo; per essi il loro paesello è il centro del mondo. Non certo noi, cittadini, sognamo le nostre comode case o i fastosi edifizi e il frastuono delle vie con l’infinito desiderio con cui il montanaro lontano dalla patria sogna il suo tugurio, il piccolo campanile bianco, la pace della sua valle e le sue canzoni”.
Quello che maggiormente coglie impreparato è leggere l’Italiano utilizzato. Quasi un’altra lingua in alcuni aspetti. Un lessico sempre garbato, dando del Lei al lettore. Una distanza tra il narratore e il fruitore che è indicativa dell’estremo rispetto e di quella forte “etichetta” che era usuale in un epoca forse più arretrata della nostra attuale ma, a mio avviso, meno caotica e lasciva. Anni in cui pareva sgarbata l’autocelebrazione eccessiva, perché simbolo di una scarsa nobiltà d’animo; ecco perché anche davanti a imprese assai ardue, difficilmente si attribuisce il raggiungimento dell’impresa alle proprie capacità, ma più diffusamente al supporto di un fantomatico “destino” o ad una più motivante presenza su di sé dello sguardo di Dio. Quello che è certo nelle loro menti è la viva convinzione che ogni meraviglia del creato sia state generata direttamente dalle mani di Dio; e in questo senso la svettante figura del Cervino suggerisce all’autore i segni di spirituali architetture artistiche e ove le mani dello scultore si sovrappongono e diventano i fenomeni atmosferici: “In principio il monte era rinchiuso entro un’immensa giogaia, un’opera d’arte nel blocco rude di marmo. L’Artefice dovette lavorare centinaia d’anni a rilevarne le mirabili forme. Non erano esseri attorno che plaudissero; il Creatore solitario e abile, continuava a scolpire l’opera sua col lavoro tenace dell’amore e s’affretta, pur che essa sorga bella e grande. Col gelo e colle nevi, coi venti  e col sole affinava il monumento; incideva le scannellature su le pareti, frastagliava il coronamento in merlature gigantesche, la cuspide che s’innalzava fino al cielo…..”.   
Alcune frasi che si incontrano su questi sentieri di parole strappano un sorriso, a causa dell’utilizzo di alcune espressioni o forme verbali che oggi non si usano più. Uso del linguaggio del tempo, anche se decisamente di una classe generalmente più forbita della media e oggi radicalmente desueto, ma che mantiene in che le ascolta o le legge, una musicalità degna di un brano di poesia.
Questo è solo un preambolo a ciò che nella realtà il libro svela, ovvero le gesta e i tentativi della salita al monte da ogni sua parte per arrivarne in cima per primi. Significative e impareggiabili le descrizioni di alpeggi e montanari, delle condizioni di vita e di lavoro delle genti di montagna a quel tempo viste con gli occhi della cittadina borghesia benestante. Impagabile resoconto delle motivazioni che spingevano uomini a rischiare la propria vita per raggiungere la cima, fossero queste di natura scientifica, spirituale o politica, nel tentativo di aumentare il prestigio di un blasone nobiliare facendo sventolare una bandiera su questa aguzza terra di conquista.  
Il salto, l’abisso che separa l’oggi al mondo raccontato in quelle righe, sembra incolmabile e vertiginoso. Eppure molti di noi hanno conosciuto, parlato, abbracciato quelle persone. Centoventi, centotrent’anni sono due/tre generazioni che si accavallano. Ciò che forse non ci aspettavamo era la velocità con cui il progresso avrebbe cancellato e resa obsoleta quella civiltà. Il dubbio è forse il lascito più grande che questo libro ci omaggia. Il sospetto, immedesimandosi nell’esperienza di quegli uomini, che nell’evoluzione della mente si sia infilata l’insidia del distacco dalla realtà, della consapevolezza della nostra condizione e dimensione, della debolezza dell’uomo davanti alla natura e al tempo. Questo se non davanti all’eccesso, al baratro più orrendo o ad inarrivabile maestosità: come le pieghe di roccia, come le righe di un libro che vale la pena più che di leggere, di vivere.  

Stefano Camòrs Guarda


Nessun commento:

Posta un commento