lunedì 8 gennaio 2018

Racconti di seconda classe


Se non fosse nota alla mia mente l’impossibilità di cambiare canale, penserei di trovarmi davanti ad un maxischermo. Invece è solo il finestrino di un treno. L’incalzare d’immagini al di fuori è ipnotico, rassicurante. Tutto ciò che accade al passaggio è intangibile al mio essere. L’avvicinarsi alle città è sempre uguale, la periferia delle città e quasi sempre identica. I palazzi mi mostrano la schiena, perché la ferrovia non è un gran bel vedere; anche quei palazzi degli anni sessanta e settanta non sono un panorama esaltante. Costruzioni fatte per dare un tetto ai molti in arrivo, con pochi soldi e tanta voglia di lavorare, in quelle aree d’Italia dove le fabbriche fumavano rabbiose. L’estetica non veniva neppure considerata, c’era la necessità dell’essenza, della sostanza più spartana. Oggi non avrebbero più senso costruzioni del genere, se non per il fatto che l’edilizia a basso costo è diventata per la maggior parte delle persone una forzatura, l’unica proposta senza alternative. Qualche panno steso sui balconi lascia intuire le caratteristiche peculiari degli occupanti. Colori sgargianti, forse africa. Vestiti ricamati all’eccesso, probabile sud-America. Lenzuola bianche e abiti neri qualche vedova inghiottita dalla globalizzazione. Le vorticose realtà produttive, divenute scheletri dai vetri infranti e dalle mura tatuate dagli spray colorati. Sono passati cinquant’anni, sembrano cinquecento. Nei pochi tratti di campagna mi rendo conto che invece le differenze ci sono, nella natura sono molto più evidenti che nel cemento. Qui posso fissare le persone senza provare o far provare disagio, le figure sono attori ed io per loro un fantasma ingurgitato da un metallico lombrico. Non sento i profumi dell’aria, né provo l’ebbrezza degli eventi atmosferici sulla pelle. Solo immagini, mute, rapide come i secondi che passano. Intorno a me, sui sedili del treno, vivacchia un variegato microcosmo di entità astratte, perfetti sconosciuti. Profumo di vita lontana nelle ondate dolciastre che arrivano da donne scure come la notte; mi pare si chiami patchuli quell’intensa essenza. Acre odore di sudore mescolato a quello del disinfettante usato nella pulizia del vagone, in aggiunta a quello ferroso delle rotaie. Ronzio di musiche ascoltate ad alto volume, ma con le cuffiette, ticchettio di dita sulle tastiere di qualche computer portatile e suoni incomprensibili, parole forse, di una lingua e cultura di cui ignoro quasi tutto. Vorrei chiedere a tutti i presenti se sanno dove stanno andando e soprattutto perché lo stanno facendo. Se è una consuetudine o se l’inizio di un’avventura. Probabilmente nessuno lo sa con certezza e, come me, si trova in quel posto ed in quel momento senza averlo desiderato e senza averlo scelto davvero. E’ andata così, e non me lo sarei mai aspettato quando ancora credevo nei sogni. La luce fuori dai vetri si fa più fioca, avanza un lento imbrunire in cui cominciano ad annegare i profili e le sagome degli edifici e dei terreni solcati da questa nave di terra. Tra poco vedrò poco o nulla fuori e le luci interne faranno in modo che dal vetro si rifletta la mia immagine. Il timore ogni volta è quello di non riconoscersi più, di vedersi invecchiati improvvisamente o diversi da come ci eravamo immaginati di essere. E’ un viaggio inevitabile, ognuno, in ogni istante, abbandona un qualcosa e s’inoltra, avventura in un qualcosa d’altro. Anche i pensieri che ronzano insistenti e fastidiosi, mi abbandoneranno appena scesi da questo carro bestiame trainato dalla locomotiva. Appena sceso, diverrò parte del paesaggio, attore nel teatro per altri viaggiatori, che distrattamente osserveranno il mio incedere deciso verso un più familiare dove. Lontano da me tengo la ricerca di un senso, che non c’è, se non nel movimento eterno delle persone attorno alla loro vita, alla terra attorno al suo asse, al tempo intorno alle congetture dei filosofi. Mi allontano dalla stazione e sbiadisco la presenza nell’oscurità. Domani tornerò sullo stesso treno o un altro, con gli stessi paesaggi e persone, oppure altre. Solo i pensieri saranno sempre gli stessi, li porto nella borsa con me, induriti e lisciati dal continuo contatto con la mente, come le rotaie di questo sentiero senza direzione.  

Stefano Camòrs Guarda

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